Non è un caso che la sinistra postcomunista celebri la “determinazione”, la “dignità” e il “rispetto delle istituzioni” dimostrati da Antonio Bassolino durante il “calvario” (così lo definisce Nicola Zingaretti) che l’ha portato alla diciannovesima assoluzione. Quella presunta manifestazione di solidarietà denuncia l’idea penitenziale del contegno che un cittadino, un politico, un amministratore sarebbe obbligato a tenere quando è sottoposto per anni alla giustizia che l’ha accusato senza fondamento devastandone la carriera e la reputazione personale. Ed è un’idea perfettamente compatibile con la concezione dei rapporti tra le persone e il potere pubblico che la sinistra postcomunista ha sempre mostrato di coltivare senza perplessità: in breve, sul presupposto che le libertà individuali – tra cui quella di non essere perseguitati dallo Stato dovrebbe essere la prima – costituiscano un orpello dopotutto sacrificabile a petto dell’esigenza suprema di una giustizia collettiva che assicura uguaglianza trionfando sulla corruzione, sull’egoismo privato, sulla politica marcia.

Ancora in breve: tutte acquisizioni rispetto alle quali è doverosamente da sacrificarsi l’interesse piccoloborghese a non essere molestati nella vita e nelle proprietà, cose da nulla se è in discussione il paradiso di una società senza crimini e senza politici con gli scheletri negli armadi. E pace se il paradiso si realizza nelle carceri piene di innocenti e, appunto, nel “calvario” del compagno che sopporta in silenzio. Da anni, da decenni si vagheggia il diverso corso che la sinistra postcomunista avrebbe potuto prendere, ma questo si fa nell’ostinata rinuncia ad ammettere che l’impostazione di quella sinistra in materia di giustizia non costituisce una deviazione emendabile bensì una profonda e direi connaturata caratteristica.

Non c’è un ordine democratico altrimenti impeccabile, fatto di welfare e inclusione, di ambientalismo e quote rosa, di riformismo latin-keynesiano e di europeismo post Bolognina, cui manca solo di capire che qualcosa non va nella giustizia che rastrella cinquecento persone chiamando i giornalisti ad assistere alla conferenza stampa sulla rivoluzione che smonta come un giocattolo un pezzo d’Italia. Questa è l’immagine falsa, contraffattoria, che anche i più onesti appartenenti a quella cultura continuano ad accreditare, appunto come se una tradizione politica per il resto gloriosa dovesse semplicemente fare il passo in più per comprendere che sull’amministrazione della giustizia occorre dirla – e soprattutto farla – diversamente. Non è così.

L’atteggiamento e la politica della sinistra postcomunista sulla giustizia sono il frutto di una concezione essenziale: non sono uno “sbaglio”. E la specie di “garantismo sociale” di cui vorrebbero dar prova i pochi che pure non militano presso le formazioni forcaiole, e magari anche le avversano, risente tuttavia di quell’irrimediabile estraneità al principio che da secoli, altrove, impasta il rapporto tra gli individui e il potere pubblico: l’habeas corpus, questa cosa straniera nella Repubblica fondata su Piazzale Loreto e proseguita con i girotondi sotto ai balconi delle procure.