“Mai superato da un allievo?”, mi chiede quest’estate un collega insegnante. “Solo uno? Sono stati ben tre, soltanto l’anno scorso, gli studenti che sono diventati più bravi di me”. Il seme posto in loro ha generato frutti e forze che già non possiedo. A lui non è mai successo, mi dice. “Non gli è facile accettarlo”, penso io senza dirlo, e del resto non è stato facile neanche per me. Non si arriva per attitudine naturale a godere dello spettacolo di chi fiorisce più di noi. C’è bisogno di una virtù che va educata: l’umiltà. È una parola che usiamo spesso e male, e mai fu illuminato meglio, l’errore, che dal genio di C. S. Lewis nelle sue “Lettere di Berlicche” (1942), capolavoro teologico incastonato in finzione letteraria: un gruppo di lettere spedite da un diavolo zio a un diavolo nipote, compendio di buoni consigli per separare (“diabolico”, etimologicamente, è ciò che separa) gli uomini da Dio, e cioè – qui la chiave di lettura, profondamente laica – da un’esperienza di godimento delle cose e, perciò, da un contraccolpo di gratitudine verso chi ne è all’origine.

L’umiltà – scrive il diavolo zio al nipote – non è da ritenersi una certa opinione, cioè una bassa opinione, dei propri talenti e del proprio carattere. Ciò che il Nemico vuole (il Nemico sarebbe Dio) è portare l’uomo a uno stato mentale nel quale egli possa concepire la miglior cattedrale del mondo, e sapere che si tratta della migliore, e goderne, senza essere più o meno o altrimenti contento di averla fatta lui, che se fosse stata fatta da un altro. Il Nemico vuole che, alla fine, egli sia libero da ogni pregiudizio in suo favore, talmente libero da saper godere dei suoi propri talenti con la stessa franchezza e la stessa gratitudine che dei talenti del suo prossimo o della levata del sole, o di un elefante, o di una cascata”.

Il tentativo

C’è bisogno di uno “stato mentale” come questo, per godere di questo spettacolo e dei tanti altri possibili. Da anni, attraverso le discipline, provo, “stento”, a insegnare il rapporto con la parola letteraria come conoscenza nuova, possibile incremento umano di sé, e perciò possibile eros. I tre ragazzi, proprio su questo terreno, sono avviati su un viaggio di approfondimento e impegno che è più generoso, ampio, rapido del mio. “Rapido”, scrivo non casualmente, perché leggo – in una bella riflessione di Antonio Spadaro su Avvenire – che non è appena ciò che è veloce, ma ciò che rapisce (dal latino rapio), porta tutto con sé. A loro è successo proprio così.

Io li osservo da adulto e già so, o credo di sapere, quanti dei loro sforzi di immersione avranno prospettive, quanti saranno dei giri a vuoto di cui non si vede l’obiettivo; qualche volta provo a indirizzare, a orientare, ed è una tentazione correttiva in buona fede, qui l’orgoglio non c’entra. Altre volte però faccio un passo indietro e divento compiaciuto spettatore del loro cammino sconfinato, presuntuoso, oltraggioso, così profondamente vivo. Questo spettacolo si chiama giovinezza.