Robert Fitzgerald Kennedy muore per un colpo di arma da fuoco nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1968, mentre attraversa le cucine dell’Ambassador Hotel di Los Angeles. Ha appena festeggiato con i suoi sostenitori la vittoria nelle primarie della California. Sono passati 52 anni da allora, eppure, in questi giorni di proteste razziali, la figura di Bob sembra più attuale che mai. Al momento della sua morte, infatti, Rfk è l’uomo bianco più apprezzato e stimato nell’America nera. Si è opposto ai leader razzisti su entrambi i versanti della Mason-Dixon, la linea che segna il confine tra l’America schiavista del Sud e quella liberale – ma pur sempre a suo modo bigotta – del Nordest. Si è impegnato contro la disoccupazione e la fame diffuse tra gli afroamericani del tempo. Ha usato il suo scranno da senatore per avviare i primi programmi anti-povertà dal Delta del Mississippi al Bedford-Stuyvesant di Brooklyn, il più grande ghetto degli Stati Uniti.

In questi giorni in cui i neri americani si rivoltano contro il “ginocchio” della discriminazione che ancora schiaccia il loro “collo” – proprio come quello dell’agente Derek Chauvin che ha ucciso il povero George Floyd – la testimonianza di Bob è più moderna che mai. Sempre nel 1968, il 4 aprile – esattamente due mesi prima della morte di Kennedy – Martin Luther King viene ucciso a colpi di arma da fuoco fuori dalla sua stanza al Lorraine Motel di Memphis. In quel momento, Bob si trova in Indiana per la prima tornata delle primarie per la campagna presidenziale. Viene informato della morte di King appena atterrato a Indianapolis. Di lì a poco avrebbe dovuto partecipare a una manifestazione all’aperto proprio nel cuore del ghetto nero di Indianapolis. Il capo della polizia, afroamericano, temendo per la sua sicurezza e per paura di disordini in città, gli sconsiglia di partecipare.

Ma Bobby non vuole nemmeno sentirne parlare: «Vado lì e basta», dice, chiedendo alla sua scorta di allontanarsi poco prima del suo arrivo. Il discorso di quella sera è rimasto celebre e ancora oggi è possibile riascoltarne l’audio: «Ho alcune notizie molto tristi per tutti voi. Martin Luther King è stato colpito e ucciso questa sera», annuncia dal piano del camion adibito a palco, il cappotto scuro stretto per proteggersi dal freddo, ma forse anche per timore delle reazioni, mentre il pubblico urla “No! No!” con una sola voce. Continua alzando la voce, ancora tremante: «A quelli di voi che sono neri e oggi sono colmi di odio e di sfiducia contro tutti i bianchi per l’ingiustizia subita, dico solo che anche io riesco a sentire nel mio cuore lo stesso sentimento. Anche io ho un membro della mia famiglia ucciso da un uomo bianco». Il ricordo del fratello John gli dà autorevolezza. L’impegno per superare le diseguaglianze razziali fa il resto.

«Ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti non è la divisione; ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti non è l’odio; ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti non è la violenza e l’illegalità, ma è l’amore, la saggezza e la compassione reciproca e un sentimento di giustizia verso coloro che ancora soffrono nel nostro Paese, siano bianchi o neri». E conclude: «Vi chiedo quindi stasera di tornare a casa, di dire una preghiera per la famiglia di Martin Luther King, ma soprattutto di dire una preghiera per il nostro Paese, che tutti noi adoriamo». Come spiega Larry Tye, ex giornalista del Boston Globe e autore di Bobby Kennedy: The Making of a Liberal Icon, le parole di quel discorso, della durata di appena cinque minuti, erano perfette: «Nessun altro come Bobby sarebbe stato altrettanto credibile nel parlare della riconciliazione razziale o del dolore per l’uccisione di una persona cara. Era la prima volta che si apriva in pubblico parlando di suo fratello Jack. I suoi ascoltatori avvertivano la sua sincera emozione. Sembrava che desiderassero confortarlo proprio mentre cercava di calmarli».

John Lewis a quei tempi era uno dei giovani Freedom Riders che, a cominciare dal 1961, percorsero in autobus le tratte interstatali nel Sud degli Stati Uniti per far valere le sentenze della Corte Suprema che vietavano la segregazione dei neri sui mezzi di trasporto. Oggi Lewis, eletto nel frattempo alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato della Georgia, ricorda: «Fare quel discorso quella notte è stato un gesto incredibilmente potente, capace di unire le persone ed emotivamente onesto». Per Lewis, la candidatura di Bobby per la Casa Bianca prometteva davvero la costruzione di nuovi ponti tra le etnie. «Quella notte ho detto ai miei amici che non avevamo più King, ma che avevamo ancora Kennedy», ricorda Lewis. L’attualità della testimonianza di Bob, insomma, risuona oggi più che mai nel clima di divisione di questi giorni. Quella notte di aprile di 52 anni fa, Kennedy non solo bypassa il sindaco e il capo della polizia, ma riesce a disperdere una folla incattivita e, in alcuni casi, armata. Durante l’insurrezione afroamericana per l’omicidio di King – che vede scoppiare rivolte in oltre 100 città degli Usa – Indianapolis rimane un’isola di calma.

«Il modo in cui Kennedy incantò il pubblico – ricorda Larry Tye – sarebbe stato inimmaginabile per i suoi rivali politici più ingessati: il presidente Lyndon Johnson, il vicepresidente Hubert Humphrey o il senatore Eugene McCarthy». Il pensiero corre subito a Joe Biden, oggi in lizza per la Casa Bianca. Il candidato ci prova, partecipando a eventi simbolici o inginocchiandosi con tanto di mascherina – come hanno fatto i poliziotti di Houston e Minneapolis – nel ricordo di George Floyd. Ma resta un personaggio goffo e impacciato, facile alla gaffe: «Un nero che non sa scegliere tra me e Trump non è un nero», ha detto, pensando di fare il simpatico, qualche giorno fa. Nessuno pretende un nuovo Kennedy, certo. Ma tanti temono che un ex vicepresidente a fine carriera sia un po’ poco per licenziare Trump dalla Casa Bianca.

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