“Ogni opinione è lecita e va dibattuta, su una cosa, però, dovremmo tutti convenire: le sanzioni sono una forma di guerra”. A sostenerlo è una personalità indiscussa nel campo della diplomazia e delle relazioni internazionali: l’Ambasciatore Sergio Romano.

La guerra del gas e quella del grano. Ambasciatore Romano, ci attende un “gelido” inverno?
Quando si prendono decisioni come quelle operate da Putin in questo momento, s’intende farlo nel momento in cui sono maggiormente efficaci, quindi non è escluso che la scelta dei tempi sia stata in qualche modo condizionata da questa esigenza. Esigenza sua, naturalmente, non certo nostra. Detto questo, non dimentichiamo che le sanzioni sono una forma di guerra. E anche se capisco che può non essere il momento opportuno per dirlo, beh, non si può dar torto ai russi se reagiscono in quel modo. Certo, noi potremmo rispondere che ha cominciato lui, cosa che Putin contesta apertamente, e andare avanti così.

Le sanzioni come una forma di guerra. Una scelta inevitabile, ribadiscono i leader europei. Ma fino a quando, a suo avviso si può proseguire su questa strada e non c’è il rischio che da conflitto “locale” si possa trasformare in una guerra generalizzata e nucleare?
Posso fare soltanto delle supposizioni. Potrei osservare, per esempio, che questa guerra poteva cominciare in qualunque momento negli ultimi mesi, perché occasioni del genere per lo scoppio di una guerra quale quella a cui lei fa riferimento ce n’erano parecchie. Non è accaduto. E allora dovremmo piuttosto chiederci perché non è accaduto. Io ho l’impressione che non sia accaduto perché siamo arrivati, nella storia dell’arma nucleare, a quel momento in cui il rischio dell’uso di quell’arma è diventato molto più pesantemente reale. E siccome il giorno in cui uno usa l’arma nucleare, specialmente se questo uno è una super potenza atomica, l’altro farà altrettanto. Il passaggio al nucleare è un passaggio drammatico se non addirittura tragico. E questo, paradossalmente, ci risparmia o per lo meno ci ha risparmiato sinora dalla guerra totale, quella vera.

La guerra è entrata nel dibattito politico-elettorale italiano soprattutto a colpi di accuse e contro accuse su chi è più filo atlantico e chi invece è “amico di Putin”. Siamo caduti così in basso nel dibattito su questioni così impegnative e drammatiche, come è la guerra?
Vede, lo stile dipende anzitutto dalle persone, le loro qualità, il loro modo di litigare o di non farlo. Forse non abbiamo dei brillanti litigiosi uomini politici. Esigere da loro cose che non possono dare è un po’ difficile.

C’è chi sostiene che un Paese che ha rispetto di se stesso dovrebbe curare, come interesse nazionale, la sua politica estera. Ciò vuol dire che l’Italia non ha rispetto per se stessa?
Francamente non è molto facile in questo periodo fare politica estera. Credo che i ministeri degli Esteri fanno quello che possono. Devono stare molto attenti a non prendere posizioni che vengono interpretate come troppo bellicose, perché a quel punto sarebbero oggetto di una risposta ancor più grave. Le confesso che io ho avuto sempre grosse difficoltà a proferire giudizi sul modo in cui ci si comporta in una crisi. Anzitutto perché di quella crisi io conosco grosso modo la metà, se ci arrivo. Perché molte delle cose che sono state fatte e dette negli scambi reciproci non le conosciamo.

Per tornare sullo scenario internazionale e ai suoi attori principali, oltre Putin e Biden. Lei come valuta il ruolo che ha assunto il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, ad esempio nella “guerra” del grano? Quello che un anno fa il presidente Draghi definiva un dittatore si è trasformato in un player diplomatico di prima fila?
Debbo dire che l’ho notato anch’io. E non ne sono del tutto sorpreso. Per quello che so di lui, l’ho un po’ seguito nel tempo, è un uomo ambizioso, un uomo che desidera emergere, essere osservato, notato. E se le circostanze gli offrono l’occasione di avere un ruolo internazionale e se questo ruolo internazionale gli può giovare anche sul piano interno, perché dopotutto anche i turchi dovrebbero o vorrebbero essere cittadini di un grande Paese, che come tale parla di tutto e che pretende di avere voce in capitolo su tutto, quelle circostanze Erdogan le afferra. Lui sta facendo quello che in fondo la Turchia desidera. La Turchia è un grande Stato che per molto tempo ha dovuto avere un ruolo a loro avviso troppo marginale. Adesso hanno un’occasione per essere sulla scena, come interpreti, come mediatori, e l’utilizzano. D’altro canto, tutti gli uomini politici desiderano avere il massimo di visibilità e questa è un’occasione che Erdogan coglie cercando di trarne il massimo profitto per se stesso, come leader politico, e per la Turchia.

Per allargare questo giro di orizzonte a 360 gradi. Come valutare fino ad oggi il comportamento degli Stati Uniti e del presidente Biden? Anche gli Usa stanno andando verso elezioni di grande importanza, come quelle di medio termine a novembre. Lei ritiene che Biden si sia rafforzato o no rispetto alla conduzione della guerra?
Io credo che nel caso di Biden occorra aprire un altro problema: quello delle condizioni della democrazia americana in questi ultimi tempi. L’America sta attraversando una crisi. Una crisi istituzionale, costituzionale, molto profonda. Trump ha in qualche modo aperto un nuovo capitolo della storia politica americana. Continua ad essere considerato un pericolo, è certamente uomo che in circostanze internazionali di particolare importanza, cercherebbe di valorizzare se stesso. E valorizzare se stesso significa criticare chi è al potere. E allora a Washington ci si muove, immagino, con una certa prudenza, perché c’è Trump. E Trump potrebbe rappresentare un rischio.

La scomparsa di Gorbaciov. Lei ha scritto importanti libri, oltre ad essere stato testimone diretto, come ambasciatore d’Italia a Mosca, dell’avvento di Gorbaciov e del crollo dell’Urss. Lei era a Mosca il giorno in cui l’Urss morì, nel 1991. Quanto della Russia di Gorbaciov c’è ancora nella Russia di Putin?
Il confronto è molto difficile. Perché stiamo parlando di due “Russie”. La Russia in cui agiva Gorbaciov era ancora, nonostante Gorbaciov fosse un uomo nuovo, retta da metodi “staliniani”, con un forte rigore e rigidità. Adesso la Russia è diventata più agile, i suoi uomini politici si muovono con maggiore disinvoltura, forse troppa. Stiamo parlando di due realtà completamente diverse. Per tornare a Gorbaciov, ha avuto il merito di restituire al suo Paese la libertà di pensiero, la libertà di stampa ma soprattutto la libertà di viaggiare. Non bisogna dimenticare che prima di Gorbaciov l’Urss era un paese in cui il cittadino sovietico viaggiava con grandi difficoltà, e non soltanto all’estero. In altri campi è stato meno efficace anche se certamente non sarebbe stato facile per nessuno cambiare da un giorno all’altro le cose nell’Urss. Purtroppo non aveva un programma economico che invece fu usato e molto efficacemente dal suo successore che fu Boris Eltsin. Per certi aspetti fu responsabile, in Occidente c’è chi direbbe meritorio artefice, della disintegrazione dell’Unione Sovietica.

In conclusione vorrei che ritornassimo sull’Italia. Lei che ne ha viste così tante nella sua lunga e importante esperienza diplomatica, ma di questa spy story di spie russe, lei che idea si è fatta. E soprattutto lei ci crede davvero che Putin voglia e possa influenzare le elezioni italiane?
Diciamo così: non mi sembra inimmaginabile. È chiaro e del tutto comprensibile che gli italiani seguano questa vicenda. Per fortuna non siamo, come Italia, in prima linea in questa crisi internazionale. Tuttavia siamo in un contesto in cui assenti non è possibile essere. E allora ogni uomo politico, soprattutto in periodi di campagna elettorale, sa o immagina che lo si valuterà anche su questo piano, se sarebbe all’altezza di rappresentare il Paese in un contesto come questo, in una situazione di crisi. Non sono sorpreso che le conversazioni finiscano per toccare anche quel punto. Mi lasci aggiungere un’ultima considerazione. Certo, non siamo la maggiore delle grandi potenze o una grande potenza, però siamo potenza. Io me ne accorgo non quando qualcuno a Roma si batte il petto e dice siamo una grande potenza. Me ne accorgo quando vedo il modo in cui ci considerano dall’estero. E si chiedono cosa l’Italia potrebbe fare in questo caso. Insomma, siamo un Paese che conta.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.