Qual è – nella società globalizzata in cui l’informazione galoppa sui social – il punto di equilibrio tra libertà di stampa e giusto processo? Dove (e come) finisce il diritto di cronaca e inizia la presunzione di non colpevolezza? Chi contribuisce, a volte inconsapevolmente, alla creazione di un “populismo penale e giudiziario” che deforma la realtà in senso criminogeno creando allarmi sociali inesistenti e alimentando pulsioni securitarie? Ed è ancora possibile, in organizzazioni complesse e geograficamente frastagliate come le redazioni dei grandi media concentrare la responsabilità per “omesso controllo” sulla figura del direttore?

Sono domande che fanno tremare le vene ai polsi ma che il giornalismo ha eluso per troppo tempo, complici l’incompiuta transizione dalla carta al digitale e la profonda crisi del settore. A mettere il dito nelle (tante) piaghe di una professione così importante da meritarsi l’appellativo di “watchdog”, cane da guardia della democrazia, è il libro “Il processo mediatico” edito da Wolters Kluwers. Un volume nella forma di “call for papers” a cui hanno aderito avvocati, giuristi e giornalisti, a cura di Andrea Camaiora (esperto e docente di comunicazione di vicende mediatico-giudiziarie e di crisi) e Guido Stampanoni Bassi (avvocato milanese, fondatore della rivista “Giurisprudenza Penale”). Un saggio che non fa sconti al “circo mediatico-giudiziario”, ai talk show trasformati in arene per gladiatori, al voyeurismo della cronaca nera che si genuflette di fronte a operazioni di polizia e grandi processi. Dove, però, l’attenzione si focalizza sulle indagini preliminari regno, scrive Gianluca Amadori, dello “strapotere dei procuratori”. Con buona pace del diritto alla riservatezza, del principio del contraddittorio, dei verbi al condizionale. Esponendo l’indagato a una “gogna mediatica” arricchita da particolari morbosi. Mentre nel dibattimento l’attenzione si sgonfia e l’eventuale assoluzione si liquida in poche righe. Interessante, sul punto, il capitolo che compara la visibilità sui media italiani della vicenda di Bibbiano con il processo del Bataclan su quelli francesi.

Storture già sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti Umani e vietate dal codice deontologico. Ma perduranti. A cui il libro propone una serie di soluzioni, a livello sanzionatorio ma soprattutto di “soft law”. Anzitutto, una più accurata formazione tecnico-giuridica (anche lessicale: la scadenza di termini non è “un cavillo”) che informi sui limiti alla pubblicazione degli atti processuali. Altro nodo è la prevalenza nella fase preliminare della versione delle Procure, magari con il nome fumoso di “carte dell’inchiesta”: già in parte regolata dall’accentramento dei rapporti con la stampa in capo al procuratore tramite conferenze stampa, andrebbe controbilanciata da una più efficace e sistematica comunicazione degli avvocati (che generalmente si limitano a un “il mio cliente dimostrerà la sua innocenza nelle sedi opportune” pressoché inutile). Diversi contributi analizzano l’ipotesi di rendere accessibili a tutti i cronisti, senza il filtro della discrezionalità, gli atti non più coperti da segreto istruttorio, che però comporterebbe problemi di riservatezza per la menzione di dettagli e persone solo tangenti alla vicenda. Meglio “educare” a comportamenti di self restraint e self regulation incentivati da sanzioni alla reputazione di cronisti e testate (come la pubblicazione delle condanne per diffamazione).

Vittorio Cama affronta gli effetti del “populismo penale” che attribuendo stigma come “mafioso, terrorista o clandestino” ben oltre l’effettiva condanna, impattano sul diritto all’oblio (praticamente impossibile sui social network) e sull’attualissimo dibattito intorno all’ergastolo ostativo. Ma i capitoli più innovativi riguardano la (difficile) applicazione della presunzione di innocenza alle società. E la prospettiva di applicare alle imprese giornalistiche a fini di prevenzione dei reati lo schema di “corporate compliance” previsto dalla legge 231. Una rivoluzione più a portata di mano di quanto appaia. In fondo diceva già tutto Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me. Si tratta – in un circolo virtuoso tra avvocati, giornalisti, magistrati e comunicatori – di applicarla.