In Lettera a chi non c’era di Franco Arminio (Bompiani) le parole che riguardano l’area semantica del “tremore” sono le più frequenti, a partire dal sottotitolo (“Parole dalle terre mosse”): «Tremano le fondamenta della terra» (da Isaia), trema continuamente la terra (dai terremoti di Casamicciola del 1883, in cui Croce perdette i genitori, a quello di Messina del 1908, in cui Salvemini vide morire l’intera famiglia, moglie con 5 figli), al «minuto di tremore in Friuli nel 1976», al cielo che «un giorno tremò»…

Lui stesso dichiara di venire da «un’aria che trema» e dichiara che «mi piace la vita scossa». Il libro è un pellegrinaggio in tutti i paesi colpiti da terremoti: dopo quelli prima citati, Avezzano, Irpinia, Friuli, Belice, Tuscania e poi in quelli colpiti dalle grandi sventure, dalle alluvioni, dai disastri ferroviari, etc., ma il suo sguardo si dilata a comprendere anche le tragedie sociali, dai linciaggi xenofobi agli omicidi maturati tra le mura domestiche. Arminio ha scritto una grande Spoon River del nostro tempo e del nostro paese, un’ode agli scomparsi caduti nell’oblio, ai morti anonimi – che «sembrano morire come foglie» – , alle umili esistenze finite nel tritacarne universale, alla sterminata umanità disfatta dalla morte. Il libro si compone di piccole prose (limpide, quasi prosciugate), frammenti narrativi, microritratti letterari (Silone, Salvemini), pagine di diario, descrizioni, annotazioni («c’è un silenzio clamoroso a Camerino»), e anche poesie, sia distici di grande intensità («Salì una fiamma, un lampo dal basso/ da un cielo sepolto sottoterra») e sia componimenti lunghi una pagina. Le poesie sono più convincenti quando illuminano, dall’interno, un paesaggio, piuttosto che quando risultano assertive, e dichiarando esplicitamente un sentimento. Si legga l’incipit di un componimento dal sapore pascoliano: «È Irpinia/ cadono gli alberi/ senza incontrarsi».

Arminio definisce se stesso ironicamente «turista delle rovine» ma il suo è uno sguardo partecipe, tutt’altro che «da turista», animato da passione esplorativa, stupore, curiosità e pietas. È anche un significativo aggiornamento della paesologia, cara all’autore: non solo e non tanto “disciplina” dello sguardo, originale invenzione poetica (che a volte, solo a volte, sfiora un rischio di alta retorica) quanto precisa denuncia di critica documentata a comportamenti individuali e collettivi, a scelte politiche e a strategie della “ricostruzione”, infine a una ideologia dominante. E, sul fondo, una meditazione sul male: storico, metafisico, insito nella natura stessa (come una ferita o incrinatura originaria). Certo, resta il presupposto della paesologia (presupposto morale e “epistemologico”), ineliminabile: guardare bene i paesi, sentirli nel profondo, saperli ascoltare, e poi dare fiducia alla gente, anche perché solo così la fiducia – sempre contagiosa – verrà ricambiata (contro gli “scoraggiatori” professionali o peggio i profeti estetizzanti dell’apocalisse).

Il libro di Arminio si rivela infine come un esercizio spirituale laico, la proposta di una “filosofia”, di una postura di fronte al terremoto, al tremore. Per i terremoti non ci sono cure né vere spiegazioni, e certo non dipendono da noi: «La stessa cosa accade nel profondo di noi stessi, non possiamo entrare e uscire a piacimento dalla nostra inquietudine». Che significa? Significa imparare che la vita non può essere immunizzata o assicurata, che quasi niente è sotto il nostro controllo (come ci promette la tecnologia), che il futuro non esiste e perciò si riempie di ogni nostra fantasia (la virtù teologale della speranza, per quanto umanamente comprensibile, secondo Pasolini genera alienazione dal presente). Si delinea qui l’abbozzo di una filosofia antica, segnatamente stoica: «il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone» (Seneca). Il messaggio non è però solo di rassegnazione: bisogna “tremare” e al tempo stesso usare il tremore. Accettare la finitezza umana – sarebbe insensato opporvisi! -, la fondamentale impotenza, la nostra “infermità”, ma costruire attraverso l’infermità un senso dell’esistere e una solidarietà di tutti gli esseri umani di fronte al nemico comune (si veda la “Ginestra” leopardiana).

Arminio nella bellissima lettera finale a chi non c’era lancia un appello alle nuove generazioni (e ovviamente non solo a loro), in nome della «grande sensualità della rivoluzione»: «Tu che al tempo del terremoto non c’eri, lascia tremare la tua vita». Dante, che della materia si intendeva (qualcuno ipotizza una sua epilessia) parla di un «tremuoto nel cuore» alla vista di Beatrice. Ma non solo. All’interno della Divina commedia il terremoto, che pure nell’aldiquà genera morte e distruzione, appare nell’aldilà come presenza teofanica e segno positivo. Con un terremoto Cristo scese all’inferno, mentre nel purgatorio avviene un terremoto ogni volta che un’anima sale al cielo. Possiamo non credere nei regni dell’oltretomba e neanche in una vita dopo la morte, però qui troviamo l’invito ad assumere il terremoto, interiore ed esteriore, come evento straordinario, occasione di rigenerazione.