L'editoriale
L’Europa deve difendersi, perché nessun altro lo farà più per noi. Il matrimonio che s’ha da fare

Il grande diplomatico e saggista inglese Robert Cooper era solito dire che “quando hai un problema che non riesci a risolvere, allarga il contesto”. Allargare il contesto nella politica internazionale di oggi vuol dire trattare le questioni relative alla pace e alla difesa come parte integrante e costitutiva della nostra concezione di sicurezza.
Sembrerà un sofismo, ma è una correlazione fondamentale: si tende a guardare i conflitti attraverso una lente o l’altra ma non entrambe insieme. C’è la lente della difesa: quella nazionale e dei mezzi militari, quella della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. Dal lato opposto della barricata (letteralmente) si mettono solo gli occhiali della pace: ovvero collegare le cause, condizioni e conseguenze ultime di un conflitto a considerazioni di natura economica, etnica o di diritto per arrivare alla ricostruzione e allo sviluppo sostenibile delle popolazioni coinvolte.
A pace e difesa appartengono due comunità politiche storicamente distinte: i pacifisti con una connotazione movimentista, eredi della gloriosa generazione che emerse opponendo la guerra in Vietnam e si riversa tutt’oggi in piazza. Gli altri con un orientamento tipicamente conservatore sono i depositari dell’ordine pubblico, sia inteso come ordine internazionale ma anche spesso interno, come evidenziato in modo plastico dalla gestione del fenomeno migratorio. In passato si doveva fare una scelta di campo che era ideologica ma anche sociologica. I drammatici conflitti a Gaza ed in Ucraina – in un combinato disposto con gli sconvolgimenti dell’ordine e delle alleanze globali che vedono gli Stati Uniti svincolarsi dall’Europa, la Russia assumere la postura del nemico esistenziale e la Cina quella di un Giano bifronte di partner e avversario – dovrebbero convincerci una volta per tutte che questa separazione fra pace e difesa è tanto artificiale quanto completamente saltata. Sia detto chiaramente: questo non è cerchiobottismo ma il suo esatto contrario.
È una chiamata forse l’ultima, a superare le miopi dicotomie che ci vengono propinate ad arte nei talk-show, fra i Don Camillo dell’idealismo e i Peppone del realismo e comprendere l’imperativo categorico imposto dalla realtà geopolitica del ventunesimo secolo. L’Europa deve difendersi, perché nessun altro lo farà più per noi. Dire che il piano Rearm/Readiness non ci piace perché è difesa nazionale e non europea è legittimo ma non costruttivo in una fase in cui non possiamo permetterci distinguo perniciosi. Ma la pace deve anche imprescindibilmente guardare alle istanze delle popolazioni coinvolte, tutte, agli sforzi immani della ricostruzione che dovranno avvenire sia a Gaza che in Ucraina, alle condizioni del diritto internazionale che da sole potranno garantire giustizia. Tutto questo per un motivo lapalissiano: ignorando la difesa e le condizioni della pace, le guerre non finiranno mai.
L’Europa ha limiti arcinoti: è lenta, spesso incomprensibile ed è bersaglio facilissimo da colpire quando si vuole addossare la colpa il più lontano possibile da noi. Nel Medio Oriente continua ad andare sparpagliata; in tre anni in Ucraina non sembriamo riuscire ad incidere. Ma noi europei siamo gli unici con le risorse intellettuali e materiali per capire che la nostra sicurezza, comprensiva e duratura, non dipende solo dalla pace né solo dalla difesa ma dal mettere a fattore entrambe. La sicurezza è un concetto e una prassi estremamente malleabile: si può dire che tutto sia in pericolo e chiamare alle armi; si può dire tutto sia risolvibile se c’è volontà politica. Sta a noi dotarci di una scatola degli attrezzi sia civili che militari che ci consenta di gestire gli estremi della pace e della guerra e di tutte le situazioni intermedie. Prima comprendiamo che noi europei siamo gli unici a poterlo fare, prima dimostreremo di essere finalmente diventati grandi, sia in termini di potenza che di maturità.
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