Se non ci fosse il governo Meloni, e se lei non fosse sottosegretaria all’istruzione e al merito, Paola Frassinetti sarebbe andata in modo silenzioso e senza provocare particolare trambusto all’Istituto Molinari di Milano a commemorare Sergio Ramelli e una delle maggiori tragedie milanesi degli anni settanta. Come aveva già fatto in precedenza da vicepresidente della commissione cultura della Camera e da assessore provinciale all’istruzione.

Anche in compagnia di esponenti del Pd e della sinistra, non escluso il sindaco Beppe Sala. Perché quella dell’assassinio di Sergio Ramelli è una ferita che riguarda l’intera città, non la sola destra, non il Fronte della gioventù, nella cui cucciolata pure la stessa Frassinetti ha mosso i primi passi in politica. Le contestazioni che la sottosegretaria ha ricevuto lunedì mattina quando si è avvicinata alla scuola con un mazzo di fiori in mano non hanno coinvolto gli studenti. I ragazzi e le ragazze della scuola sono stati i più sensati, i più sensibili, anche se per una storia di 48 anni fa che non li può coinvolgere, non solo per motivi anagrafici, ma anche perché riguarda un’altra scuola, un’altra città, un altro mondo.

Quello degli anni settanta del secolo scorso, quello in cui l’ideologia portata all’estremo a un certo punto si è fatta odio e rancore. E si è persa ogni capacità di ragionare. E qualcuno, quella trentina di anzianotti che, forse per sentirsi giovani, sono andati lunedì a manifestare sul marciapiedi davanti alla scuola come se indossassero ancora l’eskimo e avessero le clark ai piedi, forse ancora pensa di tenere accesa quella fiaccola di antifascismo militante sfociato in tragedia. La storia di Sergio Ramelli è storia di persecuzione, prima di tutto. In una scuola tradizionalmente di sinistra che ha negato cittadinanza e diritto d’asilo a un ragazzino di destra. Uno che aveva i capelli lunghi e l’abbigliamento come i compagni, ma che la pensava in un altro modo. Insulti, sputi e botte erano all’ordine del giorno ogni giorno, fino a costringerlo a cambiare scuola. Ma non era bastato. Bastava quell’urlo, “c’è un fascio” perché orde di invasati si scagliassero addosso a qualunque ragazzo fosse vestito in modo diverso, in quegli anni. Figuriamoci uno che aveva osato criticare le Brigate rosse in un tema che un virtuoso professore di sinistra aveva pensato bene di segnalare a chi di dovere.

Ecco, i docenti, quelli che hanno nelle mani il destino e la cultura dei nostri figli. Che cosa avrà insegnato a quei ragazzi e a quelle ragazze quel professore? E quale lezione stanno impartendo quelli di oggi, i primi a storcere il naso per la presenza di Paola Fassinetti a violare il loro sacrario di sinistra. Senza rendersi conto del fatto che, voler portare la storia indietro di cinquant’anni e considerare come intrusa la sottosegretaria espressione di un governo di centrodestra è come far rivivere l’isolamento di Sergio Ramelli nel contesto del tempo di allora. Una bella lezione l’hanno data i loro studenti. I quali non sono sicuramente politicizzati come lo erano i loro genitori, o nonni, di allora. Ma una cosa l’hanno chiara, e l’hanno scritta in un comunicato: non vogliono più violenza, in quella scuola e nella loro città. Si sono messi di traverso rispetto a chi dovrebbe esser loro maestro di tolleranza e invece cerca solo di trasmettere rabbia, dalla cattedra. E anche respingendo i patetici sessantenni con i cartelli e una logora denominazione di “Milano antifascista antirazzista meticcia e solidale”. Già, solidale. Non dovrebbero stare dalla parte di un ragazzino perseguitato e sprangato e ucciso, proprio come sono stati dalla parte degli studenti di sinistra che in quel liceo toscano sono stati aggrediti da quelli di destra?

Glielo ha spiegato Bruno Tinelli, fratello di un’altra vittima del tempo. Fausto e Iaio, altri due ragazzi uccisi, non si sa bene da chi, negli stessi anni. 1975 Ramelli, 1978 i due ragazzi di sinistra. Ed è stata proprio Paola Frassinetti, da assessore provinciale all’istruzione, una ventina di anni fa, a far mettere una targa al liceo di Brera in ricordo di quei caduti. E lì andrà di nuovo, insieme a Bruno Tinelli. Ha dalla sua il grande salto culturale di due Presidenti parlamentari. Quello di sinistra, Luciano Violante, che nel discorso d’insediamento aveva saputo dare voce anche ai “vinti” della seconda guerra mondiale e a quei ragazzi, “e soprattutto ragazze” della repubblica di Salò. E poi lo stesso Ignazio La Russa che nella stessa circostanza pochi mesi fa ha voluto ricordare le ferite di Milano e dell’Italia come l’omicidio Calabresi e poi i tre ragazzi, Ramelli e Fausto e Iaio.

Sono quei pezzi fondamentali di storia che avrebbero dovuto farci crescere. E sono parole che, insieme al gesto del mazzo di fiori di Frassinetti e della presenza di Bruno Tinelli, dovrebbero trasmettere cultura ai giovani. Purtroppo anche nel mondo della politica abbiamo sentito solo silenzio in queste ore. A parte la solidarietà scontata del ministro Valditara, solo due voci a sinistra, quelle di Raffaella Paita e Ettore Rosato. Sarebbe una bella occasione per la giovane segretaria del Pd Elly Schlein partire da lì, e insieme a “cacicchi e caporali” abbandonare alle ortiche dei peggiori anni settanta anche l’antifascismo militante e la sua povertà culturale. Si metta al fianco di Bruno Tinelli, ricostruisca da lì la sua sinistra.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.