PoliSofia
Nemico invisibile della democrazia
L’ossessione per l’eterna cospirazione alimenta l’estremismo e la disinformazione, così la politica cavalca il complottismo
C’è sempre meno fiducia nelle istituzioni: l’opinione pubblica viene manipolata

La sindrome complottista è sempre esistita. Gli esempi non mancano, e non serve riandare a un passato remoto. Basti pensare alla convinzione, piuttosto diffusa durante la pandemia, che il Covid-19 fosse un’invenzione per sottoporre i cittadini a un controllo capillare e invasivo; oppure all’idea che lo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11 non sia mai avvenuto; o ancora alla credenza che i Protocolli dei Savi anziani di Sion dimostrino l’esistenza di una cospirazione ebraica per il dominio del mondo. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Le teorie del complotto prosperano non solo perché offrono spiegazioni prêt-à-porter a chi è in cerca di risposte facili, evitando la fatica di comprendere la complessità, ma anche perché rappresentano uno strumento potente per le fabbriche del rancore, che capitalizzano il risentimento individuale e collettivo a fini politici. Ma su cosa si basano queste teorie? Sul presupposto che eventi complessi, soprattutto quando non vengono chiaramente spiegati da autorità o scienziati, siano il frutto di complotti segreti orchestrati da poteri occulti con intenti malevoli.
Le teorie complottiste godono di un indubbio (e allarmante) successo perché sollevano chi le condivide dall’onere di pensare, e offrono il vantaggio supplementare di sentirsi parte di un ristretto nucleo di persone che non si lascia ingannare e che sarebbe in grado di diradare la cortina fumogena delle verità ufficiali. Sebbene in alcuni casi (limitati) possano essere innocue e rientrare nel normale dibattito democratico – dal momento che i complotti esistono (e sono esistiti) davvero – nella maggior parte dei casi sono associate a comportamenti estremisti, razzismo, autoritarismo e ideologie pericolose. Possono minare la fiducia nelle istituzioni, alimentare i discorsi d’odio, screditare il ragionamento scientifico e incitare alla violenza.
Nell’era dei social media, l’assenza di controlli professionali sulle informazioni favorisce la rapida diffusione di contenuti falsi o fuorvianti, spesso creati al solo scopo di disinformare. Molti di questi contenuti provengono da falsi profili o bot – programmi progettati per imitare o sostituire le azioni umane eseguendo attività automatizzate e ripetitive. Basti pensare alle documentate manipolazioni del governo russo sull’opinione pubblica occidentale o al negazionismo climatico, che sfrutta l’inevitabile fallibilità del sapere scientifico per minare alla radice la sua autorevolezza. Le teorie complottiste diventano così parte di una strategia efficace perché suscitano emozioni e polemiche, generando negli utenti la sensazione di avere finalmente accesso a una “verità” che le élite avrebbero loro nascosto.
Ora, quali sono le caratteristiche principali del pensiero complottista? Alla base vi è la scelta consapevole di ignorare ogni evidenza contraria alla tesi sostenuta, poiché qualsiasi dato di fatto – anche il più elementare – può essere soggetto a interpretazioni contrastanti e quindi usato non solo per confermare, ma persino per rafforzare la propria convinzione, anziché metterla in discussione. Ciò porta a ingigantire dettagli trascurabili o marginali, trasformandoli in prove indiscutibili, oppure a interpretare eventi casuali – privi di regolarità o ripetitività – come ulteriori conferme di una cospirazione. Questa tendenza rende la retorica complottista immune alle proprie contraddizioni: pur di non aderire alla versione ufficiale di un evento, diventa accettabile sostenere idee che si contraddicono a vicenda, come la convinzione che qualcuno sia stato assassinato e, al tempo stesso, abbia inscenato la propria morte.
La sindrome complottista è dominata da un sospetto sistematico nei confronti dei custodi ufficiali del flusso informativo: le grandi agenzie, le testate giornalistiche, le élite scientifiche e intellettuali, considerate espressione dei cosiddetti “poteri forti” o di una cleptocrazia onnipotente che opererebbe nell’ombra contro la parte “sana” del popolo o della nazione. Secondo questa logica, i cospiratori non possono mai agire per il bene comune. Di conseguenza, chi li combatte è percepito come un eroe perseguitato, vittima di ostracismo e marginalizzazione.
Non c’è dubbio che la sindrome complottista rappresenti una seria minaccia per la qualità della vita democratica. La democrazia, infatti, non si fonda sul consenso unanime intorno a verità accertate o accertabili, ma nemmeno su opinioni affermate con l’unica autorità di chi le sostiene, senza mai metterle in discussione di fronte a evidenze contrarie. Come contrastare, allora, una sindrome che sembra incontrare sempre meno ostacoli? Le strategie possibili sono molteplici. Per cominciare, sarebbe opportuna un’opera di prevenzione, limitando l’esposizione dell’opinione pubblica alle teorie complottiste e rallentandone o impedendone la diffusione. A ciò si potrebbe affiancare una sorta di confutazione preventiva, una specie di “vaccinazione” che allerti i destinatari sulla possibilità che il messaggio ricevuto sia falso. Mettere in guardia in anticipo può essere più efficace di una confutazione a posteriori. Prevenire è meglio che curare, anche in questo caso.
Fondamentale, inoltre, è valorizzare il pensiero critico, che riconosce la propria fallibilità, incentivare il fact-checking e operare sempre le opportune distinzioni senza accettare verità precostituite. Ma tutto questo potrebbe non essere sufficiente. Poiché la sindrome complottista è anche un’espressione di sfiducia nelle istituzioni – soprattutto in quelle politiche – sarebbe auspicabile che gli esponenti politici smettessero di svalorizzare o denigrare gli organi istituzionali che considerano un ostacolo alle proprie politiche, e dimostrassero un maggiore senso di responsabilità e consapevolezza sulle possibili conseguenze delle loro azioni.
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