Una questione di cui si parla poco incombe gravemente sul processo decisionale dello Stato ebraico circa le iniziative per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei nazisti di Gaza. Per recuperarli, Israele potrà lasciarsi andare a concessioni analoghe o anche più costose rispetto a quelle cui si è costretto nelle settimane passate, a cominciare dal rilascio di centinaia di terroristi che – se appena potranno – torneranno a fare ciò per cui erano detenuti, vale a dire attaccare Israele e uccidere gli israeliani.

Ma la necessità di riportare a casa dopo tanto tempo quei pochi rimasti – un’esigenza tanto più urgente dopo le orribili conferme delle torture loro inflitte – non accantona la consapevolezza israeliana di dover approntare nuovi protocolli e diverse regole di ingaggio per la gestione della faccenda da qui in avanti. È una consapevolezza prodotta dalle deportazioni del 7 ottobre, dal commercio proficuo che hanno saputo farne gli autori, dall’impunità loro garantita da un’opinione pubblica disposta ad accettare come cosa dopotutto inevitabile che gli ostaggi fossero assassinati un po’ alla volta, mentre Hamas organizzava le danze al suono di quella partitura sicaria. Tutto questo cospira a rassodare la convinzione, in Israele, che sia necessario da qui in poi evitare anche solo il pericolo che il “successo” riportato da Hamas con quei rapimenti possa alimentare, in chiunque, ambizioni imitative (ricordiamo come cantassero vittoria le folle palestinesi che assistevano alla restituzione degli ostaggi ischeletriti e alla consegna delle bare contenenti i resti di due bambini strangolati).

Giusto l’altro giorno l’ex portavoce delle Forze di Difesa israeliane, Jonathan Conricus, spiegava che lo Stato ebraico dovrà rendere chiaro che, d’ora in poi, chiunque decida di rapire un qualsiasi israeliano – che si tratti di un’organizzazione terroristica o di uno Stato nazionale – si esporrà a conseguenze “sproporzionate” e dovrà pagare un prezzo “mostruoso”. Ha fatto anche qualche esempio concreto. Una famiglia israeliana, in vacanza in Thailandia, viene rapita dal regime di un paese nemico? E allora dieci raffinerie di petrolio salteranno per aria in quel paese, molti leader di quel paese saranno assassinati e la reazione israeliana – dichiaratamente e preventivamente – sarà preordinata a infliggere una punizione spaventosa in termini di devastazioni infrastrutturali e di vite umane, “incluse quelle di persone non direttamente coinvolte nei combattimenti”.

Il timore che organizza queste nuove consapevolezze, e che porta a prospettare queste soluzioni minacciose, riguarda il rischio, tutt’altro che remoto, che i rapimenti possano diventare un’industria impiantata sull’esperienza assai profittevole del Sabato Nero. Un’impresa, quest’ultima, remunerata doppiamente: vale a dire ripagata, per un verso, dall’obbligo di Israele di trattare e, per altro verso, tutelata dalla disponibilità della comunità internazionale a lasciare che gli ostaggi diventassero la divisa accettabile degli accordi per la tregua.

In un anno e mezzo di dichiarazioni, risoluzioni, raccomandazioni, rapporti e pareri delle Nazioni Unite, la richiesta di rilascio degli inermi rapiti il 7 ottobre dai nazisti di Gaza non è stata meglio che una clausola di stile, una noterella aggiunta giusto per completezza di quadro e per residuo pudore a documenti che non hanno mai, neppure per sbaglio, prefigurato una qualsiasi conseguenza per il caso che quella vacua istanza liberatoria non fosse rispettata.

Il presidente degli Stati Uniti che l’altro giorno, con i suoi modi e le sue intemperanze, ingiungeva ad Hamas di liberare tutti gli ostaggi senza ulteriore indugio, promettendo loro la morte se non l’avessero fatto, dava una forma grossolana e strepitosa a una pretesa che da un anno e mezzo a questa parte non avrebbe dovuto essere solo israeliana. La realtà è che neppure i racconti delle torture patite dagli ostaggi, neppure la vista di quegli uomini uguali ai superstiti dei campi di sterminio, neppure l’immagine di un padre che seppellisce due figli, un lattante e il fratello di quattro anni, e la moglie, tutti assassinati dai nazisti di Gaza, neppure tutto questo è bastato a suscitare il pubblico sospetto che avesse un nome l’indifferenza generalizzata per la sorte di quella gente. Quel nome è antisemitismo, e non caratterizza i gesti di quei rapitori più di quanto contrassegni e spieghi quell’indifferenza.