Massimo D’Alema è al centro del confronto su luci e ombre di Mani Pulite andato in scena nella Biblioteca della Camera dei Deputati. L’incontro, giovedì scorso, era formalmente convocato dall’Associazione Ex Parlamentari per presentare due libri su Bettino Craxi. E sul tavolo, con D’Alema, ci sono i giornalisti Carmine Fotia e Fabio Martini, che da punti di vista diversi hanno raccontato l’epilogo della vicenda craxiana.

Mani Pulite e il reato nuovo da inventare

In prima fila, il socialista Giampaolo Sodano. «Mani Pulite voleva assestare un colpo mortale al sistema politico. Per farlo avevano bisogno di creare un reato nuovo, che mettesse gli imprenditori nella condizione ideale di denunciare la politica. Lo fecero: inventarono il reato di concussione. E all’improvviso tutto divenne concussione. Decine e poi centinaia di imprenditori scoprirono nell’arco di un breve periodo di essere stati, loro malgrado, concussi. Così ebbe inizio quella campagna dedicata alla demolizione del corpo politico italiano. Che venne tutto colpito dallo stesso disegno».

La bufala raccontata dal testimone a Di Pietro

Dice D’Alema: «La crisi italiana riguardava un certo rapporto tra economia e politica. Un rapporto che non era stato costruito da una parte sola. Secondo me, nemmeno prevalentemente da una parte sola. Il Psi fu il partito più colpito, soprattutto perché dimostrò una sua debolezza». E qui l’ex segretario dei Ds ed ex presidente del Consiglio entra di punta su una vicenda chiave di quel periodo. «Durante il processo Cusani che si svolse nelle sue fasi durante la campagna elettorale nel 1994, io ero in campagna elettorale nel collegio di Gallipoli. Venne chiamato un testimone, convocato da Di Pietro. Gli disse, durante quella sua testimonianza che aveva accompagnato Raul Gardini a Botteghe Oscure, che io li avevo ricevuti. Disse che avevo accompagnato Gardini da Achille Occhetto e che Gardini era entrato con una valigetta e uscito senza la valigetta. A conclusione di questa testimonianza, Di Pietro disse: “Come vedete, ci stavano in mezzo tutti”. Io ero nel pieno della campagna elettorale e potere capire che la cosa non fosse gradevole, per così dire».

D’Alema rivela quello che fece allora. «Scrissi subito al presidente del tribunale: “Il testimone ha reso una testimonianza falsa”. Perché quella testimonianza era falsa. Oltretutto mi trovavo nella felice condizione di poterlo dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio: in quel periodo non ero l’assistente di Occhetto, ero il direttore de L’Unità. E in quei giorni mi trovavo a Mosca per intervistare Shevardnadze. Scrissi al tribunale. Mi risposero: la materia non è attinente al processo, dato che la testimonianza contiene una notizia di reato, lei avrà modo di chiarire la sua posizione con la Procura della Repubblica. Fine. Non successe nulla».

“Volevamo abbattervi”

Poi però la vicenda ha un seguito, D’Alema e Di Pietro si incontrano, su invito dell’ex Pm che nel frattempo, dismessa la toga, era diventato politico a sua volta. «Passarono gli anni, Di Pietro era ministro del governo Prodi. E voleva parlarmi. Il sottosegretario Bargone ci invitò a cena. Io come prima cosa gli dissi: “Dottor Di Pietro, vorrei chiarire con lei un punto. Lei anni fa portò a testimoniare un testimone falso». E qui D’Alema dà conto, pregando di virgolettare con precisione, delle parole dell’ex inquirente del Pool Mani Pulite. «Di Pietro mi disse: “Noi volevamo abbattervi e liquidarvi tutti. Ma voi siete stati un osso duro”. E c’è qui un testimone straordinario, Guido Calvi, il mio avvocato, che può confermarlo».

“Butta via le chiavi”, la replica alle minacce dei pm

Le parole di Di Pietro: «Noi volevamo abbattervi e liquidarvi tutti», hanno dell’incredibile, risentendole a freddo. La strategia era quella di abbattere un sistema politico, per sostituirlo. Da qui in poi D’Alema parla ai socialisti presenti: «Quando si è indagati per molti anni, come è capitato a me, ci si affeziona al proprio avvocato come al medico. Può testimoniare lui, diciamo, che cosa è stata l’azione giudiziaria, sempre priva di fondamenti ma non priva di una sua forte aggressività nei confronti di dirigenti e esponenti del nostro partito. Forte aggressività. Forte. Io conosco e sono grato a quei compagni che sono stati chiusi in galera con accuse folli da magistrati che dicevano: “o tu dici che hai dato i soldi a D’Alema o tu da qui non esci”. E alcuni di questi hanno risposto: Butti via le chiavi. Noi avevamo molti difetti, ma eravamo un osso duro. Siamo stati un osso duro».

Il pungolo è sulle tante ammissioni tra i socialisti. «Altri partiti hanno retto di meno. Perché c’era qualcosa nella loro coesione che si era consumata. E come e perché si era consumata è un tema su cui, ragionando sulla storia socialista, bisognerà pur riflettere. Altrimenti si alimenta soltanto un vittimismo e una teoria del complotto che non sono una spiegazione sufficiente. Voi mi perdonerete per questo che non è uno sfogo, ma un discorso tra compagni, di verità. Nella coesione del Psi c’è stato qualcosa che si era consumato: la lealtà reciproca, direi. E questa fu una delle ragioni che portò al cedimento del Partito Socialista Italiano, vittima eccellente di quella stagione ».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.