"I garanti restino fuori dal procedimento"
Mattanza in carcere, parte il processo ed è scontro sulle parti civili: la posizione paradossale del ministro della Giustizia
Schermaglie procedurali e un braccio di ferro tra accusa e difesa e tra difesa e parti civili. Il maxi-processo per le torture e i pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si apre così. Ieri c’è stata la prima udienza nell’aula bunker del carcere sammaritano ristrutturata e riaperta appena quattro giorni fa. Centocinque gli imputati, fra medici e soprattutto dirigenti, funzionari e agenti dell’amministrazione e della polizia penitenziaria, tutti finiti sotto processo a diverso titolo per i reati di tortura, lesioni personali, maltrattamenti, abuso di autorità contro detenuti, falso in atto pubblico, perquisizioni personali arbitrarie, omessa denuncia, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento, rivelazione di segreto d’ufficio. Ad alcuni degli imputati è contestato anche il concorso nelle circostanze che hanno causato la morte di Hakimi Lamine, il detenuto algerino che dopo i pestaggi fu messo in isolamento e un mese dopo fu trovato morto in cella.
Il primo scontro giudiziario del processo è sulle parti civili. Ieri, ad apertura del processo di primo grado che dovrà accertare le singole responsabilità di quella terribile mattanza, molti degli imputati sono tornati a sollevare eccezioni sulle costituzioni di parte civile: secondo loro i garanti, quello regionale ma soprattutto quello nazionale, non avrebbero diritto ad essere ammessi a un eventuale risarcimento, così come si è tornati a contestare la posizione del Ministero della Giustizia, presente nel processo sia come parte civile sia come responsabile civile. Tutte questioni che la difesa degli imputati aveva proposto in fase di udienza preliminare ottenendo un secco no da parte del giudice e che ora ripropone alla Corte d’assise (il collegio presieduto dal giudice Roberto Donatello). Si torna in aula il 14 novembre per affrontare questa ed altre questioni preliminari, come la costituzione di parte civile di altri 26 detenuti individuati dalla Procura come vittime dei pestaggi e che ora chiedono di essere aggiunti agli oltre settanta che si sono già costituiti come parti offese, e la costituzione dell’associazione “Italiastatodidiritto”.
La Corte, inoltre, dovrà sciogliere la riserva anche sulla richiesta, avanzata sempre da alcuni imputati, di smembrare il processo, lasciando in Corte d’assise solo le posizioni chiamate a rispondere del reato di tortura e delle presunte responsabilità nella morte del povero Lamine e stralciando davanti al Tribunale tutte le altre posizioni. Si vedrà. Intanto è una coincidenza che si carica di simbolismo il fatto che il processo si svolga nell’aula bunker annessa al carcere dove il 6 aprile 2020 si verificò la mattanza al centro delle accuse. Ieri in aula erano presenti molti imputati e alcune vittime o loro parenti. Tra questi ultimi Antonella Cacace, la figlia di Vincenzo, il detenuto sulla sedia a rotelle selvaggiamente picchiato nel reparto Nilo del carcere sammaritano. Le telecamere di videosorveglianza che ripresero le scene dell’orribile mattanza catturarono anche le fasi del pestaggio di Vincenzo costretto su una sedia a rotelle.
Cacace è deceduto il 18 giugno scorso: la figlia con la madre e il fratello ora sono pronti a portare avanti la sua battaglia giudiziaria per avere giustizia su ciò che accadde quel 6 aprile 2020. «La vicenda di mio padre la conoscono tutti, i video sono evidenti – afferma Antonella -. Mio padre ha sbagliato nella sua vita ma non avevano alcun diritto di fargli quello che gli hanno fatto. Rimase molto sconvolto, gli abusi in carcere gli causarono un forte stress post traumatico». «Fin quando è stato in cella – aggiunge – non ci ha mai detto cos’era accaduto. Lo abbiamo saputo solo dopo che è stato scarcerato, perché la sua salute peggiorava, non riusciva più a dormire, si svegliava urlando. Quelle botte gli erano rimaste impresse».
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