Sapere che degli esseri umani sono stati salvati da una morte sicura e imminente, perché “non bevevano da tre giorni”, può andar bene (si fa per dire) se si tratta di escursionisti che in montagna han perso la strada, di un gruppo rimasto sepolto in una galleria crollata, o dei sopravvissuti di un remoto villaggio isolato dai rifornimenti.

Ma sentire da un telegiornale, infilata tra quella sul caro-ombrelloni e quella sul rilancio della dieta mediterranea, e riportata con fungibile tono routinario, la notizia che a pochi chilometri delle nostre spiagge è stato recuperato l’ennesimo carico di profughi, uomini donne e minori che “non bevevano da tre giorni”, significa assistere all’andazzo di accettazione che porta una società a fare spallucce se sta sul bordo di un inesausto recipiente di affogati e morti di sete. Con la differenza, appunto, rispetto a una inopinata disgrazia o a un incidente qualsiasi, che la routine di morte e sofferenza che va in scena sui nostri mari non ha nemmeno bisogno di essere preveduta perché è rappresentata con immancabile periodicità, e noi vi assistiamo dal palco di una noncuranza che giudicheremmo oltraggiosa nel caso di drammi ben più tenui.

Può lasciare indifferenti – ed è un altro profilo della medesima sfigurazione – ma la vicenda di una vacca indonesiana rimasta imprigionata in un intrico di rami fa più strepito e riceve più attenzione pietosa rispetto a quella di gente che non beve da tre giorni (e cioè ha qualche ora di vita, se non fortuitamente salvata) nel tentativo di accostarsi al Paese per cui essa costituisce materia da comizio a difesa dei sacri confini. È gratuitamente retorico denunciare che un cane randagio, coi suoi indiscutibili tormenti, raccoglie più simpatie e più offerte di assistenza rispetto a quelle cui può ambire chi viene da noi dopo aver perso tutto, semmai ha posseduto qualcosa, chi ha abbandonato la propria terra portando con sé soltanto la propria fame, il proprio terrore, i propri figli nella disperata speranza che crescano senza soffrire la stessa fame, senza vivere in quel terrore: è retorica? È melodramma umanitarista? O è la piatta descrizione di quel che accade?

Siamo parecchio divisi, per quanto uniti in una indistinguibile inefficienza, su come affrontare il cosiddetto fenomeno dell’immigrazione, ma i menù delle soluzioni lasciano in disparte, anzi nemmeno recano, la necessità prioritaria: che è quella di non farli morire di sete. Che è quella di non dover più assistere a un telegiornale che completa la scaletta delle scontatezze riferendo che quei poveretti non bevevano da tre giorni. E “poveretti” lo abbiamo aggiunto noi, perché il Tiggì avrebbe sforato, annotandolo.