Al confine tra la Polonia e la Bielorussia si contano circa 4mila migranti bloccati alla frontiera e 12 vittime. L’ultima è un bimbo di un anno e mezzo, morto nella foresta dove si trovava da più di un mese con i genitori anche loro in fuga dalla Siria. I genitori erano entrambi feriti, lui è morto di stenti. In Siria da dieci anni si muore di guerra, di fame. 600mila morti, sei milioni di sfollati e di rifugiati. Numeri che le conferiscono il primato di conflitto più mortale al mondo.

Oltre la metà dei bambini siriani non ha mai messo piede in una scuola. Una generazione che non ha mai vissuto neanche un giorno di pace. E se non si muore si prova a scappare per sopravvivere, per mettere in salvo la speranza di avere un futuro da vivere. Questo c’è oggi nella foresta che separa la Polonia, l’Europa dalla Bielorussia, che poi non è molto diverso da quello che c’è nel tratto del Mediterraneo che separa la Libia da Lampedusa, da ciò che si trova tra le tende e nel fango delle isole greche, o nello stretto della Manica, nei Balcani, sulla barriera delle enclave di Ceuta e Melilla tra il Marocco e la Spagna. L’Europa è circondata di sogni e speranze di pace e libertà ma soprattutto di diritti negati a chi in fuga da guerre, persecuzioni, fame e povertà cerca, legittimamente, accoglienza e protezione.

Al Centro Astalli, Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia, ogni volta che muore un migrante alle frontiere d’Europa è sempre più difficile trovare le parole per comunicare, denunciare, chiedere e provare a ottenere un cambiamento delle politiche migratorie che abbia come effetto la fine di un’ecatombe che dura ormai da venti anni. Sono momenti in cui il silenzio sarebbe l’unico spazio capace di contenere dolore, sgomento e incredulità per quanto accade ai confini dell’Unione europea, ai confini della nostra umanità. Ma oggi questa pagina e molte altre non possono rimanere bianche. Il silenzio è un lusso che non possiamo permetterci. Abbiamo invece l’onere di molte pagine per descrivere, raccontare, denunciare cosa accade oggi in Europa nel gelo dell’indifferenza, nel buio della lunga notte dei diritti. Muoiono ogni giorno donne, uomini, bambini che provano ad entrare nella nostra torre aurea fatta di privilegi e illusione di impenetrabilità, sempre più chiusa, asserragliata. Fortezza che si pensa inespugnabile.

Gli accordi di esternalizzazione con paesi terzi non sicuri, sono arma usata e abusata indiscriminatamente contro i migranti. Si paga qualcuno per fare il lavoro sporco: contenere, respingere, picchiare, uccidere. Lasciar morire è uccidere. Usare le parole giuste per descrivere ciò che accade, non è solo esercizio linguistico ma atto politico, assunzione di responsabilità. Un’Unione mai così divisa, anziché dare risposte coerenti, solidali e umanitarie, è sempre più lacerata e indebolita tra egoismi e chiusure, in balia di governi autoritari e dei loro ricatti, per cui la sorte dei migranti è effetto collaterale trascurabile. L’Unione europea non può restare ferma a guardare la morte. L’immobilismo non può essere strategia politica, è barbarie.

Tanta parte di società civile da tempo chiede di aprire vie legali di ingresso, canali umanitari, di evacuare i migranti dalle principali aree di crisi. Chiede di accogliere, proteggere, salvare. Gli Stati europei non possono non ascoltare la voce dei loro cittadini che chiedono dignità e diritti per tutti. L’Europa è piena di luci verdi che illuminano la notte gelida dell’indifferenza. Governanti, all’altezza di questo nome, devono mettere in atto politiche che gestiscano le migrazioni in modo legale, ordinato e sicuro. Che sia un uomo, una donna, un bambino a morire non fa alcuna differenza. Che si fugga dalla guerra, dalla povertà, dalla dittatura, dalla siccità non fa alcuna differenza. Chi lascia morire uccide. Noi Europa vogliamo essere altro.