A partire dal 2018 si sono moltiplicate in Europa le barriere fisiche ai confini esterni dell’Unione. La più lunga, di 235 chilometri, attualmente corre alla frontiera tra Bulgaria e Turchia. Altre barriere sono state realizzate al confine tra Grecia e Turchia, nella zona del fiume Evros, che è uno dei punti di passaggio più battuti dai migranti. C’è poi la zona dei Balcani, che vede un intenso fiorire di muri: tra Slovenia e Croazia, tra Macedonia del Nord e Grecia oltre che tra Serbia e Ungheria. Altro sbarramento è quello tra Lituania e Bielorussia. Anche la Polonia si appresta a fare altrettanto, mentre la Spagna ha rinforzato reti e filo spinato nelle sue due enclavi di Ceuta e Melilla in territorio africano e la Francia ha intenzione di blindare i suoi confini attorno al porto di Calais.

Questo è il “recinto” di cui i Paesi europei vogliono dotarsi per controllare e bloccare gli ingressi in Europa.
E anche l’ultima richiesta dei Ministri degli Interni, in occasione dell’incontro di ieri a Lussemburgo, va in questa stessa direzione, nella pia illusione che con questi strumenti i confini esterni dell’Unione possano essere salvaguardati e basti blindarsi per garantire la sicurezza delle frontiere e impedire la tanto temuta “invasione”. Già a luglio, prima della presa di potere dei talebani in Afghanistan e della tragedia umanitaria che ne è conseguita per decine di migliaia di persone, Paesi Baltici e Polonia esprimevano il timore essere in balia del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko, il cui obiettivo è quello di destabilizzare l’Unione facilitando gli arrivi di profughi da quella frontiera. Per i dodici firmatari della lettera di ieri – Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia – Bruxelles dovrebbe rafforzare ulteriormente le misure alle frontiere contro i migranti, con l’adeguamento del “quadro giuridico esistente alle nuove realtà”, come la “strumentalizzazione dell’immigrazione irregolare”, ritenendo che “le barriere fisiche sembrano essere un’efficace misura di protezione che serve gli interessi dell’intera Ue, non solo dei Paesi membri di primo arrivo e che questa misura legittima dovrebbe essere finanziata in modo aggiuntivo ed adeguato attraverso il bilancio Ue come questione urgente”.

Nel documento si legge anche che “per garantire l’integrità e il normale funzionamento dello spazio Schengen, tutte le nostre frontiere esterne devono essere protette con il massimo livello di sicurezza […e che] la nostra politica di migrazione e di asilo deve essere resistente agli abusi di paesi terzi”. Ed è proprio questo il punto. Mi fa sorridere amaro leggere questi passaggi della lettera. Anzitutto, considerando il risicato bilancio della Commissione, che peraltro, per volontà degli Stati membri, non ha competenza sulla materia dell’immigrazione e non riesce ancora a dotarsi di una politica d’asilo comune. Reiterare l’impostazione secondo cui l’unica soluzione sia chiudersi in una fortezza al fine di “impedire” l’ingresso di poveri disperati che continueranno a provare ad accedere – per avere quella protezione internazionale dall’Unione europea, che fa della difesa dei diritti umani il proprio fulcro – non potrà mai portare alla soluzione di una questione di portata così ampia e che riguarda l’umanità dalla notte dei tempi.

Ovviamente la protezione delle frontiere esterne è di fondamentale importanza ma va scissa dalla questione migratoria. Ritenere che gli attraversamenti “illegali” possano essere contrastati erigendo muri e mettendo del filo spinato, non è solo disumano, ma a dir poco lunare. Le conseguenze di sistemi migratori non regolati e le ridotte capacità di accoglienza possono essere affrontate solo in un modo: dotando l’Unione di una politica estera comune, oltre alla tanto sbandierata politica di difesa, che abbia competenza anche sulla questione migratoria. Chiedere coesione e solidarietà in materia migratoria, continuando però ad agire ciascuno Stato membro in maniera isolata, non fa che indebolirci. E questo rappresenta plasticamente il contrario di quanto occorrerebbe fare, già partendo dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe giungere a conclusioni e fornire orientamenti sul futuro del continente, sebbene, fino ad ora, i punti ritenuti essenziali non elenchino in alcun modo la riforma del Trattato di Lisbona e, quindi, la reale volontà di dotarci di una effettiva unione politica che possa veramente permettere di affrontare le sfide attuali, in un contesto geopolitico mutato, di cui pare ci ricordiamo solo parlando della difesa comune.

Non voler avere una visione più complessiva, che consideri il superamento delle dinamiche nazionali a favore di una reale azione congiunta a livello europeo, mostra, a mio avviso, una miopia di fondo, di cui l’iniziativa lituana in chiave anti bielorussa – cui si sono agganciati anche Grecia e Cipro in via strumentale e in chiave anti turca- è solo l’ultimo passaggio. In questo contesto di blocco, ciò che mi pare positivo è l’approccio della Ministra Lamorgese, che sta svolgendo un’azione coordinata con Spagna e Malta, e che già ieri sul contenuto della lettera dei dodici, ha ricordato che la migrazione è questione ampia e ben più complessa con Paesi che hanno frontiere marittime e che non mettono cancelli sul mare. Possiamo fantasticare su qualsiasi barriera fisica e pure inventarci dei bastioni in mare, ma la questione migratoria, anche con la crisi afgana si complica notevolmente. Solo ieri l’attentato terroristico a in una moschea sciita a Kunduz ha causato la morte di almeno 50 persone e centinaia di feriti. Come dovrebbero reagire? Ciascuno scapperebbe. E di certo nell’incertezza di come procedere nell’affrontare una situazione così terrificante, l’Italia si è comportata bene, portando in salvo migliaia di profughi afghani e promuovendo la proposta di uno strumento di monitoraggio. Inizialmente pensata come l’istituzione di una Commissione di monitoraggio, ha portato alla proposta di nomina di uno Special Rapporteur, fortemente spinta dal sottosegretario Benedetto Della Vedova e che, grazie anche all’impegno della Farnesina col Ministro Di Maio, ha condotto alla firma di uno Joint Statement firmato da 47 Stati membri.

Perché il vero rischio adesso non sono i flussi migratori, anche dall’Afghanistan, considerati genericamente, ma poter continuare a guardare a come possa evolvere la situazione in quell’area, con un governo dei talebani che vede terroristi tra i propri ministri. In un Afghanistan in cui gli stessi clan sono divisi e il rischio possa scoppiare una guerra civile è altissimo. Peraltro è indubbio che l’Afghanistan sta pencolando verso l’alleanza asiatica piuttosto che verso l’Occidente. Ecco perché penso che sia imprescindibile trovare un minimo comun denominatore altrimenti ognuno andrà per conto suo, noi europei compresi. Pensare che chiudersi in un bunker sia la soluzione, magari continuando a finanziare quei paesi terzi con lo scopo di fuggire al loro ricatto, lo trovo davvero utopistico. Spero che almeno l’imponenza della crisi afgana, con le conseguenze che, più di ogni altra crisi, sono lampanti, se non altro per il mutato ordine geostrategico e geoeconomico a livello mondiale, possa servire a ritrovare una visione unitaria che permetta all’Unione europea di avere un ruolo decisivo per l’avvenire.