«Quante volte ho sentito ripetere: ‘aiutiamoli a casa loro’. Ebbene, se si vuole farlo seriamente, è venuto il momento di far seguire i fatti alle parole. Prima che quella ‘casa’ bruci. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro. L’Europa non deve finanziare ‘gendarmi’ o carcerieri a garanzia della sicurezza delle sue frontiere esterne. Se si vuole far desistere decine di migliaia di persone in fuga da guerre e dalla povertà assoluta, occorre offrire loro una speranza di vita, un futuro dignitoso. Per migliaia di disperati l’alternativa concessagli è morire in mare o essere rinchiusi in lager come quelli in Libia. L’umanità sta affogando nel Mediterraneo. Nessuno sogna di fare il migrante, perché quello non è un sogno ma un incubo. Offriamo loro una valida ragione per restare. Perché di fronte alla disperazione di chi sa di non aver più nulla da perdere non esistono muri che tengano». A sostenerlo, in questa intervista al Il Riformista, è Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace.

Dopo la sua missione a Tunisi, lo scorso 27 luglio, riferendo al Consiglio dei ministri, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha definito la situazione in Tunisia come un “vulcano in eruzione”. Siamo a questo punto e ciò sancisce il fallimento della “rivoluzione dei gelsomini” e del modello tunisino?
Non sarei così tranchant, anche se questo non significa sottovalutare un fatto allarmante e in continua crescita: da Paese di transito, la Tunisia si sta trasformando sempre più in un Paese di origine dei flussi migratori. Una cosa è certa: quello dei migranti non può essere ridotto a un problema di sicurezza e di attività di polizia. Un approccio di questo genere è destinato al fallimento. Noi abbiamo bisogno di investimenti che diano lavoro ai giovani tunisini, non solo di motovedette. Vede, la grande maggioranza del popolo tunisino continua a sostenere il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. Ad aggravare ulteriormente una situazione già gravida di problemi, è l’instabilità politica e istituzionale: il duello interno tra islamici e laici ha portato tre settimane fa alle dimissioni del premier Elyes Fakhfakh, che ha lasciato il suo nuovo governo varato a febbraio. Se prevarranno logiche di fazione e interessi di parte, il destino della Tunisia è segnato. La speranza è che il premier incaricato Hichem Mechich riesca a dar vita ad un governo di coesione nazionale, senza la quale la Tunisia rischia di precipitare nel baratro. A quanti chiedono lavoro e libertà non si può, non si deve rispondere, con la repressione, riducendo il malessere sociale a un problema di ordine pubblico. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia. Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato” ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro. Un futuro condiviso

Resta comunque una crisi economica e un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente aggravati
Purtroppo è così. La crisi pandemica rischia di moltiplicare le disuguaglianze sociali e la distanza tra i Paesi ricchi e i Sud del mondo. Per quanto riguarda la Tunisia, quello compiuto in questi nove anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi.

A cosa si riferisce?
Al malessere sociale. Il processo di democratizzazione non può dirsi realizzato se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio.

Per tornare all’oggi. Chi c’è dietro la “rotta tunisina”?
Vi sono organizzazioni criminali che hanno stabilito un patto d’azione con gruppi jihadisti che, dopo essere stati scacciati dalla Siria e dall’Iraq, hanno fatto del Nord Africa la loro nuova trincea, soprattutto ai confini tra Tunisia e Libia. Il loro obiettivo non è la conquista del potere ma destabilizzare i Paesi in cui s’insediano, cercando di controllare territori utilizzati per sviluppare i loro traffici criminali. E lo fanno sfruttando un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente alimentato. La risposta vincente non può essere solo repressiva né, come purtroppo è accaduto, utilizzare la guerra al terrorismo per sospendere libertà fondamentali, individuali e collettive. La Tunisia è nel mirino di questi criminali perché ciò che non tollerano è il consolidamento dello Stato di diritto, l’opposto della dittatura della sharia che vorrebbero instaurare.

La tragedia senza fine in Siria, la guerra dimenticata in Yemen, il caos armato in Libia. Il Mediterraneo è in fiamme. In piedi resta, anche se con forti incrinature, solo la speranza tunisina. Cos’è che l’alimenta?
La consapevolezza, frutto di ferite ancora aperte, che al dialogo non c’è alternativa. La convinzione che per difendere un bene comune ognuno doveva rinunciare a qualcosa, che nessuno era depositario di una verità assoluta. Nel 2013, con gli assassinii di leader politici della sinistra, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, siamo stati davvero sull’orlo del baratro. Ma, insieme, siamo riusciti ad evitare un bagno di sangue e a scommettere sulla possibilità di realizzare uno stato di diritto, plurale, del quale la nuova carta costituzionale è espressione. Nel far questo abbiamo recuperato il meglio della storia della Tunisia, il primo paese al mondo ad abolire la schiavitù, il primo paese arabo ad accettare e favorire l’emancipazione della donna. Se abbiamo evitato il baratro è anche perché la nostra rivoluzione democratica ha potuto far leva su una società civile matura e organizzata, su un sindacato forte e radicato, su associazioni di categoria, sul protagonismo delle donne, un universo plurale che ha segnato la transizione, dimostrando come sia possibile trovare dei punti di convergenza importanti tra forze di ispirazione laica e di sinistra e quelle espressione di un islam politico che rifugge da una concezione assolutista del potere.

Da avvocato e difensore dei diritti umani quale bilancio si sente di trarre, su questo delicatissimo campo, dei nove anni post-rivoluzione?
Un bilancio che presenta ancora zone d’ombra da superare se si vuole realizzare pienamente uno stato di diritto. La legislazione non è ancora conforme alla costituzione. Le leggi liberticide sono ancora in vigore in Tunisia. Mentre la costituzione prevede la presenza di un avvocato durante l’arresto di polizia, il codice di procedura penale non è stato ancora modificato. È, tuttavia, una garanzia fondamentale per prevenire la tortura e i maltrattamenti che persistono nelle stazioni di polizia, nelle stazioni della Guardia Nazionale e nelle carceri sovraffollate. Dico questo perché la rivoluzione del 2011, che è stata vincente perché è stata una rivoluzione di popolo, ci ha reso consapevoli che la democrazia non è si esaurisce con il voto. La democrazia è un sistema di regole condivise, un bilanciamento tra i poteri, è l’autonomia della magistratura dal potere politico, è libertà d’informazione, è l’affermarsi della giustizia sociale. Democrazia è regole e sostanza. Questo è il sogno che supporta il modello tunisino.

Un sogno realizzabile?
Abbattere un regime come quello di Ben Ali non è stato facile, il popolo tunisino ha pagato un prezzo altissimo e ancora oggi piange i martiri della libertà. Ma costruire un sistema democratico è ancora più difficile perché non può essere imposto dall’alto. Bisogna lavorare dentro la società, far crescere una cultura democratica che sia a garanzia del rispetto di ciò che si scrive nella carta costituzionale o nelle leggi. È cambiare mentalità consolidate. Non è facile, ma ci stiamo provando seriamente.

Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia?
Di continuare sulla strada della cooperazione. Costruire opportunità di lavoro per i giovani tunisini è il modo migliore, più efficace per contenere i flussi migratori e contrastare l’azione dei trafficanti di esseri umani. Abbiamo bisogno di aiuti, non di ultimatum.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.