In uno dei finali più belli della recente storia del cinema italiano, Nanni Moretti saluta con discrezione guardando in macchina. Come fosse un commiato. A voler dire: ecco, vi ho detto tutto quello che avevo da dire. I morettiani ovviamente interpretano il gesto in modo opposto, come se Nanni avesse voluto dire: la vita continua, alla prossima. Non essendo nella testa dell’autore de Il sol dell’avvenire, resta il fatto che quel saluto finale suggella nel modo più festoso e diremmo addirittura maestoso il senso di un’opera che è una vera enciclopedia del morettismo, come un grande baule di quelli di una volta dentro i quali si trova tanta roba mescolata eppure ciascuna con una sua propria fisionomia.

Chi va a vedere questo film deve appunto giudicare se questa mescolanza narrativamente funziona (e forse per questo serve più di una visione, come per certi romanzi: Philip Roth o Flaubert, per fare due nomi lontanissimi tra loro, andrebbero sempre letti almeno due volte), e se riesce agevole separare la realtà dalla fantasia districandosi da meandri che sono nella testa di Nanni e planano sulla platea: capire insomma dove si vuole andare a parare. Perché al di là delle apparenze dense di morettismi che ritroviamo con la stessa familiarità di quando torniamo a casa da una lunga vacanza, Il sol dell’avvenire non è un film facile. Ovviamente si può leggere in vari modi, su vari livelli.

E però se si dovesse dare un consiglio a chi non l’ha ancora visto bisognerebbe invogliare a percepire l’insieme del film, sforzandosi di cogliere – ripetiamo il termine – la mescolanza dei vari “affluenti” dell’opera. Che sono: la vicenda di un regista chiamato Giovanni (Moretti) che deve fare un film; questo film è sul 1956, cioè sull’intervento sovietico in Ungheria e i dilemmi che esso causò nel Partito comunista italiano; la crisi coniugale tra Giovanni e la moglie (Margherita Buy); il film che la Buy sta producendo e la relativa critica morettiana al cinema di oggi; la piccola storia dei figli del protagonista.

Dietro questi diversi affluenti ci sono poi molti altri torrenti che vi sboccano, altri topoi ben noti a chi conosce a memoria Ecce bombo o Caro diario, il monopattino dove c’era la Vespa, il quartiere di Roma Nord, i tanti riferimenti cinematografici («Cassavetes era anche un bell’uomo»), la “critica delle scarpe”, il disprezzo per le brutture dei film contemporanei, l’uso delle canzoni italiane, il circo ungherese “Budavari”, lo stesso nome del pallanuotista di Palombella rossa. Ma questo inevitabile senso di déjà vu se può infastidire il non morettiano, dá invece coerenza ad un discorso che dura ormai da quasi mezzo secolo, in fondo Michele Apicella è invecchiato, come tutti noi.

È tanta roba. Troppa roba? Troppo “morettismo”? Troppa ideologia? È probabile che chi detesta Moretti qui si sia sentito male, ma anche a tanti non ostili non è piaciuto. C’è chi ha lamentato un sovraesposizione di Nanni (critica un po’ bizzarra per uno come lui) e una certa lentezza – questo è vero – nell’avvio del film. Che piano piano però cresce in tutti i suoi rivoli fino al clamoroso finale fellinian-morettiano: e che Fellini e Moretti potessero in qualche modo scambiarsi un’occhiata è uno di quei misteriosi enigmi che avvengono solo sotto il cielo del cinema. Giacché questo è per Nanni – è stato già osservato da molti – ciò che Otto e mezzo fu per Fellini. Alla ricerca di un senso. Per quest’ultimo ovviamente più indirizzata verso il suo intricatissimo “io”, per il regista romano più proiettata verso la storia politica, il cinema, e più intimisticamente l’amore.

Come nella sarabanda di Otto e mezzo, anche qui alla fine tutto viene improvvisamente a comporsi quasi con un colpo di scena: infila la testa nel cappio, il protagonista Giovanni, ma la toglie subito, vuol dire che c’è una speranza. Il sol dell’avvenire non è quello promesso dai profeti del socialismo ma è un sole umano. Si rilevano certe incongruenze sui fatti d’Ungheria o su un Trotsky “libertario” che non è mai esistito: ma non essendo un film storico si tratta di rilievi che hanno un senso relativo. Ma già che ci siamo: a chi interessa oggi il 1956 dell’invasione sovietica di Budapest? «Che ci frega della politica, questo è un film d’amore», dice Barbora Bobulova – in quel momento parla l’attrice, non il personaggio – a Giovanni/Moretti. Già. Stalin, Lenin, Togliatti, il segretario della sezione del Pci del Quarticciolo (Silvio Orlando) e la compagna Bobulova che esprime un dissenso sentimentale più che politico: certo, si può dire che in controluce ci sia l’Ucraina come una nuova e più terribile Ungheria, e probabilmente qui c’è una botta a quei “pacifisti” che della Resistenza ucraina si lavano le mani. Ma non solo.

Moretti torna per l’ennesima volta a mettere le mani nel Problema Politico di un Paese che non è normale anche e forse soprattutto perché non ha avuto una sinistra normale, e non tanto perché ci fossero i dirigenti cattivi ma perché politicamente “cattiva” era la base: qui Moretti non ci arriva, come se al fondo ci fosse in lui una scoria rousseauiana per la quale il popolo è sano, è la Storia che lo ha corrotto. Ecco perché i fatti di Budapest non furono condannati dai dirigenti comunisti, «avevamo pura di perderci il Partito», disse una volta Alfredo Reichlin, un Partito che non era pronto a distinguere invasore e invaso, anzi aveva ragione l’invasore. Protestarono gli intellettuali, non i militanti, tra i dirigenti giusto Antonio Giolitti.

Staccare l’immagine di Stalin dal muro lasciando quella di Lenin è un omaggio alla propria gioventù, la cosa non ha evidentemente senso storico e morale, ma il regista sogna la storia fatta con i “se”, e i sogni aiutano a vivere. Tutto sarebbe andato in un altro modo, siamo diventati anziani e l’abbiamo capito. È già qualcosa. Questo della rievocazione del 1956 è in fondo un ultimo capitolo del particolarissimo rovello che accompagna Moretti da Ecce bombo a Palombella rossa a Aprile, i film diciamo così più politici e che s’intreccia con la vita reale del regista, la famosa invettiva di Piazza Navona («Con questi dirigenti non vinceremo mai») e la successiva (mal riposta) suggestione dei Girotondi, un rovello che gira attorno alla questione generazionale della sconfitta, tema “romantico” proprio in senso leopardiano, che non porta però alla disperazione intellettuale ma all’ansia di “cercare ancora” anche se non si più bene cosa, forse una normalità difficile a farsi, nella Storia come nella vita. E qui c’è un Moretti intimista che in qualche modo riannoda e districa i fili di una meditazione che va da La messa è finita a Bianca, da La stanza del figlio a Mia madre fino al meno riuscito Tre piani, e anche in questo caso con l’esito sorprendente di immaginare l’esistenza umana in un letto più tranquillo: il sol dell’avvenire in fondo è tutto qui, e non è davvero poco.