Perché Trockij e non Gramsci? Il bel film di Nanni Moretti si chiude, in un suggestivo rilancio dell’idealità comunista che sembra affiorare nel finale, con il ritratto di Trockij. È lui il simbolo ancora attuale di una causa di liberazione che si ritiene sconfitta, non vinta. Ed è lui anche il pretesto per evocare un tracciato controfattuale e reinventare la storia del movimento operaio (non solo in Occidente). La sua vittoria avrebbe reso possibile un esperimento di società radicalmente diverso rispetto alla repressiva cornice edificata sotto l’egemonia staliniana.

E però, se il volto del despota georgiano è giusto strapparlo dalle pareti della sezione del Pci in quanto emblema della curvatura dittatoriale del mondo nuovo, a sostituirlo forse non bastano l’acqua minerale “Rosa” (in onore di Rosa Luxemburg) e neanche Trockij. Con la massima considerazione per le tesi e l’azione del grande rivoluzionario russo e della raffinata economista e pensatrice polacca, risulta alquanto problematico ritenere che dalla Lega di Spartaco o dal gruppo dirigente sovietico degli anni Trenta, preso nel suo complesso, emerga una compiuta costruzione teorica utile a realizzare le istanze di libertà e di emancipazione che oggi riemergono. Proprio per questo è legittimo chiedersi: perché non Gramsci al loro posto? Va detto con chiarezza, e oltre le soggettive esigenze estetiche di un film, che, se qualcosa di vitale rimane della tradizione comunista ed è ancora oggi spendibile nella battaglia delle idee, questo è legato in larga parte al pensiero di Antonio Gramsci.

Nelle sue pagine si può rintracciare il solo modello capace di indicare risposte politiche e culturali alternative rispetto alle aporie che hanno affondato la Repubblica dei Soviet. A 86 anni dalla morte, il pensatore sardo non rappresenta un semplice martire del movimento operaio, come invece lo presentò Galvano della Volpe. Lo fece quasi per consegnare alla storia del sacrificio un eroe sconfitto sotto il totalitarismo fascista e ridimensionarlo nel ruolo a lui spettante nella galleria del grande pensiero politico del Novecento. Eppure, a distanza di anni, i Quaderni si confermano sempre più come una miniera di risorse concettuali da recuperare per l’analisi della grande crisi del secolo breve e da interrogare con curiosità per la fondazione di un tentativo ricostruttivo della prospettiva socialista in occidente.

Sulla scorta della sua lezione, peraltro, sarebbero state possibili in Italia una ricomposizione del movimento operaio prima del diluvio ma anche una ripartenza efficace dopo l’accumulo di macerie. Tra le pagine più problematiche ed acute dedicate ai Quaderni, ci furono infatti quelle del socialista Giuseppe Tamburrano e dell’azionista Norberto Bobbio. Oggi che è scomparso il soggetto, le tante sinistre frantumate possono ritrovare in Gramsci una bussola da scrutare per riprendere un cammino non sterile tra le contraddizioni della tarda modernità. Nella letteratura internazionale, non a caso, l’interesse per Gramsci non è mai diminuito. Solo nel corso del 2022, sono uscite nuove biografie in inglese, in spagnolo e in francese. Anche negli studi sfornati dagli indirizzi del pensiero cosiddetto post-coloniale, oggi molto in voga nelle accademie, risuonano le categorie dei Quaderni. Si pensi all’innovativo lavoro dello storico Victor Kiernan dal suggestivo titolo Antonio Gramsci and the Other Continents.

Molto significativa è la presenza degli spunti del teorico italiano nei libri dello studioso indiano dei diritti umani Upendra Baxi, esponente di spicco dei Subaltern Studies. Oltre che nei tentativi di sfuggire alle insidie dell’eurocentrismo, ben presente anche nella filosofia marxista dell’800, l’impianto gramsciano è molto utilizzato nella mappatura delle “modernità alternative”, come le ha chiamate Beppe Vacca qualche anno fa. Ai pionieristici contributi di Robert W. Cox che ha travasato il pensiero gramsciano nell’analisi delle relazioni internazionali, alle esplorazioni di Giovanni Arrighi sulla successione storica delle egemonie nell’economia-mondo, si sono recentemente aggiunti molteplici contributi originali. Il punto sul loro impatto lo fa Benno Teschke (Marxism, in C. Reus-Smit, D. Snidal, The Oxford Handbook of International Relations): «L’economia politica internazionale di orientamento neo-gramsciano (IPE, o ‘materialismo storico transnazionale’) – egli scrive – incarna la teoria marxista più influente entro il discorso contemporaneo sulle relazioni internazionali. Sulla base degli scritti non economicistici del comunista italiano Antonio Gramsci, il concetto di egemonia costituisce la categoria analitica centrale per comprendere su base storica gli ordini mondiali al fine di escogitare contro di essi prescrizioni anti-egemoniche».

In questo quadro di influente attualità del pensiero gramsciano, si inserisce anche il ritorno in edicola di una delle creature del comunista sardo, l’Unità. Gramsci osservava che «i giornali puramente politici o d’opinione non hanno mai potuto avere una diffusione grande: essi sono comprati dagli scapoli, uomini e donne che si interessano fortemente della politica». Non poteva sospettare la straordinaria penetrazione raggiunta proprio dal giornale da lui fondato in alcune stagioni della storia repubblicana. Chi immagina soltanto di ripetere l’impresa dei tempi magici del quotidiano comunista è un folle. Ma chi non pensa che valga la pena di infondere energia nella resurrezione della felice invenzione gramsciana è un disertore della battaglia culturale per la democrazia che impegnerà l’Italia nei prossimi anni.