Il futuro dei dem
“I 5 stelle non sono più quelli del vaffa, l’alleanza su valori condivisi”, intervista a Gianni Cuperlo
Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, è tra i pochi che non gira attorno ai problemi più scottanti E lo conferma in questa intervista a Il Riformista.
Pd, Lega e 5Stelle: partiamo da qui. Se dopo la sconfitta del 2018 vi avessero detto che a fine legislatura avreste governato tutti assieme non ci avreste creduto. Invece è accaduto ma la domanda resta: come fate a stare al mattino in maggioranza con la Lega e il pomeriggio a suonarvele di santa ragione?
Potrei dirle che la risposta sono i quasi 120 mila morti di Covid e la decisione di Italia Viva di far cadere il governo di prima. Nel senso che siamo dentro una emergenza sanitaria, economica e sociale e Draghi guida un governo di scopo reso necessario dalla forza degli eventi. Detto ciò basta leggere le frasi di Salvini dopo l’ultima strage nel Mediterraneo per capire che tra noi e loro c’è un abisso in termini di cultura, valori, e persino di quel senso di umana pietà che un pezzo della destra calpesta in nome di una campagna elettorale permanente. Comunque ha detto bene Letta: scelgano cosa vogliono fare.
Se passiamo all’asse Pd-5Stelle, invece, Enrico Letta vi ha definiti alleati e competitori. Chi appoggia questa linea pone l’accento sui cambiamenti positivi che sarebbero intervenuti nei pentastellati. Insomma, sareste riusciti a “istituzionalizzarli”. Ma non è una narrazione di comodo che, come sostiene Michele Prospero, maschera il cedimento dem all’”antipolitica”?
Tutto sta a capirsi sui termini. La matrice di quel movimento è stata senza dubbio quella che descrive Michele Prospero. Cosa c’è di più antipolitico che riempire Piazza Maggiore di un popolo deluso e mandare a quel paese partiti sindacati istituzioni? Se poi il taumaturgo di quella folla si fa trasportare a giro per la piazza seduto dentro un canotto e si fa chiamare “l’Elevato” è difficile rubricare l’evento come una riedizione del Partito d’Azione. Poi però accadono tre cose che finiscono con l’archiviare quella scena. Nel 2013 quel movimento si presenta alle urne e convince quasi un quarto degli elettori a votarlo. Non è ancora sufficiente per scalare il governo, ma la scelta di entrare in Parlamento, fosse pure per aprirlo come una scatoletta di tonno, cambia il profilo anche se non ancora il linguaggio. La seconda tappa sono le elezioni del 2018. Lì la vittoria è sonante, a votarli è praticamente un italiano su tre e per loro si aprono le porte del potere. Lo fanno sulla base di una bozza di contratto con la Lega, parafrasando Gaber: “due debolezze in un corpo solo”. Nasce un governo antieuropeista e venato di contraddizioni e errori sciagurati. E arriviamo al terzo passaggio: la scelta di unirsi a noi per un governo che isoli la destra estrema.
Governo quest’ultimo che, però, cade malamente sulla linea del traguardo, alla vigilia del Recovery Fund.
Esatto e a quel punto accade ciò che sappiamo: Italia Viva stacca la spina e arrivano Draghi. Ora, si possono avere i giudizi più diversi, ma la verità è che tra i 5 Stelle di oggi e la piazza del “Vaffa” di 14 anni fa è difficile trovare qualche punto in comune. Aggiungo che senza un rapporto fondato su basi e valori condivisi con quella forza, oggi una alternativa numerica alla destra semplicemente non c’è. Ed è vero che in politica i numeri non sono tutto, ma i rapporti di forza in qualche misura pesano.
Per Bettini l’essenza di un riformismo forte consiste «nell’accorciare la distanza tra chi sta sopra e chi sta sotto». E per lei?
Certo, il tema è esattamente quello: come evitare che quelli nati in fondo alla fila debbano restarci per il resto della vita. Ma se questo è il titolo, l’ostacolo è come lo affronti. In dieci mesi la pandemia ha distrutto 250 miliardi di dollari di redditi, creato 150 milioni di nuovi poveri estremi mentre le 500 persone più ricche del pianeta hanno aumentato il loro patrimonio di 1.800 miliardi. La forbice delle disuguaglianze si è allargata, il Pil del mondo ha subito una contrazione di 4 punti dando origine alla recessione più seria dopo la fine del secondo conflitto mondiale. La conseguenza per noi è riconoscere che questo capitalismo non può identificarsi solo col mercato, inteso come lo strumento per l’allocazione più efficace delle risorse. Ma il semplice fatto di dirlo significa correggere il racconto che ha giustificato ogni governo dell’Occidente negli ultimi trenta, quarant’anni. Vuol dire riconoscere che quel mercato senza una dimensione pubblica è destinato a collassare e che per funzionare ha bisogno di una giustizia sociale che questo capitalismo non è in grado di garantire.
Detta così pare l’annuncio di una rivoluzione imminente.
No, una rivoluzione magari no, ma alcune conseguenze quel giudizio le produce per necessità e la prima sta nel prendere atto che una crisi simile non la superi solo aggiustando i meccanismi di malfunzionamento dell’economia, compresa una cattiva distribuzione dei redditi. Questa crisi chiede soluzioni che, per una fase, si facciano carico della minore capacità di generare reddito trovando il modo di compensare quella perdita. E allora anche il termine riformismo va reinterpretato in modo meno timido, a partire da una riforma del patto fiscale e da una riscrittura del welfare, da una visione meno tradizionale dei tempi della vita che per fortuna si prolungheranno sempre di più e incideranno sulle dinamiche del mercato del lavoro, da un governo dell’algoritmo e dell’impatto di una tecnologia che può agire da motore di liberazione, ma anche distruggere spazi di autonomia e persino di dignità. I testi di Shoshana Zuboff o di Michele Mezza aiutano a capirlo meglio dei talk tv dell’ultimo anno.
Sostiene Letta: «Serve un grande patto per superare la crisi. Come fece Ciampi nel ‘93». Il futuro è nel passato. E poi non c’è già Draghi a far questo?
Quella di Letta è un’intuizione giusta. Quando sei di fronte a una condizione di emergenza che può travolgere le certezze di ieri, il compito di una classe dirigente è attrezzare una risposta all’altezza. Questo fu il patto voluto da Ciampi nel ’93. E forse merita ricordare che un uomo dall’integrità e dalla radicalità indiscusse come Bruno Trentin solo un anno prima, dopo aver firmato l’accordo tra sindacati e governo Amato del 31 luglio 1992 si dimise da segretario della Cgil, dimissioni che a settembre il sindacato respinse. Ma era in qualche modo la conferma della gravità del momento e di cosa implica per una classe dirigente un’assunzione di responsabilità.
Ma tornando alla suggestione di Letta?
Penso che il richiamo fatto da Letta non sia rivolto al merito di quella stagione, ma al metodo che si seguì allora. La capacità di alzare lo sguardo e cogliere nel dopo tutti i rischi, le incognite, ma anche le potenzialità. Per noi, per la sinistra, questo vuol dire indicare le vere priorità, la parte di società più colpita da questa crisi se vogliamo convincere quel pezzo di mondo che non si è più sentito visto e rappresentato che, invece, una alternativa è possibile.
In Italia tutto sembra ridursi a una targa ministeriale. È il caso della “green economy”. Scelti i candidati cancellieri, i Verdi tedeschi invece sorpassano per la prima volta i conservatori dell’Unione e toccano il 28% dei consensi, con un aumento di ben 5 punti dovuto alla nomina di Annalena Baerbock. Lì c’è il nuovo che avanza, mentre da noi… Non è triste?
La trasformazione ecologica come quella al digitale non sono titoli o targhette ministeriali, riflettono l’agenda dell’Italia dei prossimi anni. Quanto alla Germania, l’esempio ci interessa per l’ovvia ragione che quel paese ha un peso tuttora decisivo sugli equilibri dell’Europa. La stagione di Merkel si chiude e sono molti gli indicatori che fanno pensare a una futura maggioranza “semaforo” come la chiamano da quelle parti: verdi, socialdemocratici e liberali. Detto tutto ciò per i partiti della sinistra credo si possa adattare la formula del romanzo: “ogni partito che vince si somiglia, ogni partito che perde, perde a modo suo”. Ecco, io vorrei vedere l’alba di una sinistra che da noi come altrove torna a vincere perché capace di convincere.
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