Tredici mila rifugiati, più di un decimo degli 86.000 abitanti dell’isola di Lesbo. 13.000 disperati, stretti corpo a corpo in un’immensa favelas puzzolente, in lotta per l’acqua, il cibo, l’aria, uno contro l’altro a rubarsi il sonno. Il campo profughi di Moria, terra greca in faccia alla Turchia, poteva solo essere immaginato dalla mente perversa di un pittore che da tempo avesse superato i confini della follia. Era reale, con le tende afflosciate dal dolore, le capanne di lamiera traforate dai miasmi della vita in fuga, le baracche divorate dalla delusione, dalle promesse tradite. Tutti lo sapevano che era una cisterna colma di un carburante marcio, pronto a infiammarsi.
Tanti lo prevedevano, lo avevano previsto lanciando allarmi che come sempre hanno trovato dall’altro lato un guardiano in sonno, attonito, sorpreso dall’atteso. Un custode greco che è il sostituto imposto di un’Europa che è perennemente in arrivo con qualche alta carica istituzionale per rammendare lo sbrego e giurare ravvedimenti per il futuro. C’è da giurarci, il vice presidente della commissione europea, Margaritis Schinas, atteso da un momento all’altro, arriverà tra un attimo o in quello successivo, pronuncerà impegni solenni e dopo, dopo porterà di nuovo a letto l’Europa, che si farà risvegliare dalle sirene di un prossimo incendio, di una nuova tragedia, prevedibili come tutti quelli del passato.
Sono per lo più afghani, gli sfollati di Moria, sono fuori dal campo senza più nulla delle pochissime cose che avevano, sono stati bloccati lungo la strada che porta a Mytilene, un camion a un capo e un altro al capo opposto, rinchiusi sull’asfalto, per non farli entrare nei paesi vicini, per non essere messi in contatto con una popolazione locale che diventa sempre più ostile, non per razzismo o egoismo, per paura, impotenza, rabbia.
La vita a Moria è sempre stata complicata, l’accertamento di alcuni casi di infezione da covid19 l’aveva resa impossibile, tensioni e paure interne, misure rese restrittive fino a diventare insopportabili. Sono gli stessi rifugiati a essere sospettati degli incendi, e il campo distrutto non deve essere ricostruito, secondo Skai Stratos Kytelis, sindaco di Mytilene e portavoce della comunità dell’isola. Gli abitanti non ci stanno più, non vogliono che l’isola paghi il prezzo di un compromesso tra la Turchia e l’Europa, perché Moria è nata in virtù di questo, accontentare Erdogan, alleggerendogli il carico. Salvo poi abbandonare il fardello agli isolani, che per tanto tempo hanno accolto, aiutato. Moria non era e non poteva essere più un affare di Lesbo, della solidarietà, dei volontari. Doveva essere affrontata come un’incombente questione umanitaria.
Che riguarda, e continuerà a farlo, l’Europa, che arriva ora a distribuire acqua e pacchetti alimentari sull’autostrada per Mytilene, la casa che sostituisce le stamberghe di Moria: l’addiaccio al posto dell’addiaccio, mitigato dalla promessa di portare in Germania o in Olanda qualche centinaio di minori, dall’arrivo di navi rifugio. Moria muore e non ne nasce una speranza, per quanto orribile fosse era più accogliente del bitume che veste la terra e fa da materasso a un’agonia che prosegue, si aggrava col propagarsi del Covid19 che abbranca anime indifese, braccia tese a elemosina qualcosa da bere, uno straccio da mettersi addosso. Moria era già morta prima di morire, il fuoco ne ha attestato l’estinzione, e l’Europa che arriva sulla strada per Mytilene, viene per porgere le condoglianze.
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