Davvero, come dicono in molti, dallo storico dell’arte Salvatore Settis all’urbanista Tito Boeri, stiamo assistendo alla crisi della città moderna e dei suoi luoghi simbolo? O, come sostengono altri, per esempio l’archistar Carlo Ratti, passerà anche questa, e le città, come non si svuotarono dopo l’epidemia della Spagnola, continueranno ad attrarre moltitudini anche dopo il Covid-19? Il dibattito è aperto e sarebbe bene che anche Napoli vi si inserisse: a partire dall’attuale amministrazione comunale, che sebbene abbia davanti a sé ancora un anno di vita, si mostra invece beatamente inconsapevole del ruolo a cui è chiamata. Forse de Magistris è convinto di poter risolvere tutto alla vecchia maniera: in generale, agitando utopie protettive e, in particolare, apponendo qualche sagoma di bici sull’asfalto e rilasciando licenze per l’occupazione di spazi pubblici a bar e pizzerie. Ma questo non è più il tempo dell’euforia, che il sindaco ha dimostrato di sapere brillantemente “governare”; quello della fuoriuscita dal lungo periodo di penitenza napoletana che va dal terremoto alla crisi dei rifiuti.

Questo è, purtroppo, nuovamente il tempo del disinganno, della prospettiva che torna a farsi stretta. E il crollo del turismo non è l’unica ragione per cui la discussione sul futuro delle città ci riguarda. Crisi o non crisi, infatti, tutte le aree urbane sono in cerca, se non di nuove identità, di nuovi equilibri di spazi, di flussi e di funzioni legate ai servizi e alle infrastrutture. Napoli non è un’eccezione. Se infatti fosse giusta la tesi di Settis e Boeri, quella per cui c’è ormai poco da aspettarsi dalla vita urbana, svuotare un’area metropolitana di cento comuni e tre milioni di abitanti a favore della campagna e dei piccoli borghi, implicherebbe comunque un tempo lunghissimo. Senza considerare che mettere a dieta un’area metropolitana è un pò come farlo con una persona: ci vogliono risorse e molta cura, e spesso gli abiti (i servizi) non si possono adattare mandandoli in sartoria; bisogna rifarli.

D’altro canto, se fosse invece vera la tesi di Ratti, per cui valgono i precedenti di Venezia e Napoli, che di sicuro non si spopolarono dopo la peste del 1348 e la sifilide del 1494, resterebbe il problema – acuito dall’emergenza virus – dei cosiddetti picchi urbani. Degli affollamenti ricorrenti. Quelli che si determinano, ad esempio, quando ci infiliamo nella metropolitana uno sull’altro nelle ore di punta (150mila al giorno solo sulla sulla linea 1) o quando, nei weekend, facciamo ressa per un posto al sole sul lungomare. Ma ripensare una città implica conoscerla. Ed è qui che l’inesistenza di una “regia” cittadina balza agli occhi. Quali “vuoti” urbani bisogna colmare e quali “pieni” invece sfoltire? Quali sono i nuovi bisogni dei singoli quartieri?

E quali risorse mobilitare, visto che i trasferimenti statali legati all’emergenza prima o poi si esauriranno e quelli ordinari non saranno più sufficienti? È a questo punto che la cassetta degli attrezzi si rivela inadeguata. Non si ha notizia di dati, di studi, di ipotesi di lavoro. E tutto questo prima ancora dei progetti che a loro volta dovranno poi essere realizzati e amministrati. Da chi? Come? Qualche giorno fa, Chiara Appendino, sindaca di Torino, ha spiegato come intende muoversi una volta finito il lockdown. “Ci attende – ha detto – una grande mappatura della città. Sappiamo che vivremo in una dimensione più locale, con meno spostamenti. E allora dobbiamo sapere zona per zona quali servizi esistono e funzionano e quali mancano o vanno potenziati”. Ecco, il fatto che un’esigenza del genere, a Napoli, non sia stata finora neanche avvertita è già un brutto segno.