Nel vasto programma di riforme della giustizia penale attivato dalla ministra Marta Cartabia è arrivato il momento dell’ordinamento giudiziario, tema già approfondito dalla Commissione ministeriale di studio presieduta da Massimo Luciani. Gli argomenti trattati sono numerosi e assai complessi, come lo sono in genere tutti i problemi relativi all’ordinamento giudiziario. Intendo per ora occuparmi della posizione istituzionale del giudice e del pubblico ministero, per i quali è attualmente prevista una carriera unitaria, ma da decenni si discute sull’opportunità di introdurre la separazione delle due carriere. Questa prospettiva è sostenuta con particolare forza dall’Unione delle Camere penali, che vede nell’unitarietà della carriera di pubblico ministero e di giudice un pregiudizio per il principio costituzionale della parità delle parti – accusa e difesa – davanti a un giudice terzo e imparziale, e tale non sarebbe un giudice collega del pubblico ministero nell’ambito della medesima carriera.

Ebbene, ritengo che gli aspetti negativi della separazione delle carriere siano di gran lunga più rilevanti dei supposti vantaggi che deriverebbero per il principio della terzietà e indipendenza del giudice. Valga per tutte la constatazione che nella maggior parte dei paesi ove vige la separazione delle carriere il pubblico ministero dipende dal potere esecutivo. In prospettiva storica l’esempio italiano è particolarmente illuminante: nel corso dello Stato liberale, e poi in forma ancora più marcata nel periodo fascista, il pubblico ministero era posto alle dipendenze del ministro della giustizia, che ne dirigeva l’operato mediante circolari che indicavano le categorie di reati contro cui procedere con particolare severità e rigore (in genere si trattava di reati di natura politica); istruzioni che indirettamente coinvolgevano anche i giudici che ne venivano comunque a conoscenza. La memoria storica degli effetti della dipendenza del Pm anche nei confronti dell’indipendenza dei giudici era ben presente ai costituenti, che con un’apposita norma hanno stabilito nella Costituzione che il Pm goda delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’ordinamento giudiziario.

No alla separazione dunque, ma regole molto rigorose volte a disciplinare il passaggio dalle funzioni di Pm a quelle di giudice e viceversa. Queste regole in gran parte già esistono, e alcune sono ulteriormente rafforzate nella Relazione della Commissione Luciani. A seguito della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, il passaggio dall’una all’altra funzione non è consentito all’interno del medesimo distretto di corte di appello; inoltre nel corso della carriera il magistrato non può mutare le funzioni di giudice o di Pm più di quattro volte e deve svolgere la medesima funzione per almeno cinque anni. A sua volta la Relazione Luciani riduce la possibilità del mutamento di funzione da quattro a due volte, ritengo soprattutto per ragioni di economia processuale, posto che potrebbero crearsi situazioni di incompatibilità nei confronti di un giudice del dibattimento che aveva a suo tempo svolto funzioni di pubblico ministero nel medesimo procedimento. Il passaggio dall’una all’altra funzione è comunque fenomeno di scarso rilievo quantitativo: Armando Spataro in un articolo di ieri su La Stampa ha opportunamente precisato che nei tre anni dal 2016 al 2019 i passaggi da Pm a giudice sono stati 80 e quelli nella direzione opposta 41.

Alla luce di episodi in cui pubblici ministeri spinti da un’impropria smania di protagonismo hanno anticipato contenuti e sviluppi di improbabili mega-inchieste, la disciplina del passaggio dall’una all’altra funzione andrebbe integrata da un periodo iniziale in cui il futuro pubblico possa acquisire una solida “cultura della giurisdizione”. Il giovane neo-magistrato che intende esercitare le funzioni di pubblico ministero dovrebbe inizialmente essere assegnato per un congruo periodo – due/tre anni – a una sezione collegiale del tribunale penale, svolgendo così funzioni di giudice e acquisendo consapevolezza dei limiti entro cui normalmente opera la funzione giurisdizionale, limitata a fatti concreti e specifici, sorretti da acquisizioni probatorie altrettanto concrete e specifiche. Tutto il contrario di colossali inchieste nei confronti di fenomeni criminali diffusi sul territorio o nei confronti di vaste categorie di potenziali futuri imputati, talvolta preannunciate da pubblici ministeri alla ricerca di pubblicità e consenso sociale e poi rivelatesi prive di sbocchi processuali. Processi di tale natura sono esistiti – basti pensare a Tangentopoli dei primi anni Novanta, al terrorismo e alla mafia – ma appartengono alla storia, e non è detto che possano riproporsi in termini analoghi.

Dal momento che si parla di pubblici ministeri, la tragica e dolorosa vicenda della funivia del Mottarone merita un cenno anche sul terreno processuale. Qui abbiamo assistito dapprima alle improprie dichiarazioni della procuratrice della Repubblica di Verbania su tutti i possibili risvolti delle indagini in corso, che una volta erano coperte dal c.d. segreto istruttorio; poi – mentre pensavo di menzionare a titolo di lodevole confronto il silenzio della giudice per le indagini preliminari – quest’ultima non si è limitata a parlare con l’ordinanza che disponeva la scarcerazione dei tre indagati (trasformata per uno in arresti domiciliari), ma si è spesa in dichiarazioni e interviste critiche nei confronti della procuratrice della Repubblica che aveva disposto il fermo degli indiziati. Nell’occasione l’opinione pubblica è anche venuta a conoscenza che la giudice per le indagini preliminari non sarebbe più andata a prendere il caffè con la procuratrice della Repubblica.