L'intervista al presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane
Omicidio Willy, gli avvocati degli accusati minacciati di morte. Caiazza: “Opinione pubblica non può essere giudice”
«Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare»: così Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, commenta le minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte.
Avvocato Caiazza com’è possibile che un avvocato venga minacciato nell’esercizio della sua funzione?
In questo Paese si confonde il diritto sacrosanto all’indignazione e al volere giustizia per fatti così orrendi ed insensati con la giustizia sommaria, che porta ad emettere sentenze sulle responsabilità individuali prima che lo facciano i giudici. Lo si fa poi senza conoscere i fatti o conoscendoli parzialmente, e considerando pregiudizialmente le posizioni difensive come irrilevanti. Il punto di vista dell’indagato diviene sempre non credibile per definizione: non mi riferisco al caso di Colleferro in particolare, si tratta di un atteggiamento costante. In più qui c’è la pretesa di dare giudizi di responsabilità sulla base della tipologia di persone coinvolte. Nel caso di cui stiamo discutendo gli indagati hanno determinate caratteristiche sociali, culturali, comportamentali, fisiche: si pensa che ciò abbia una ricaduta automatica nel giudizio di responsabilità. Bisogna invece lasciare fare il mestiere di giudice a chi lo deve fare ed evitare di pronunciarci prima che lo facciano loro. In questo clima è coerente che il difensore venga minacciato: osa rappresentare una realtà diversa da quella prevalente, e per questo viene rappresentato come complice del proprio assistito.
Le minacce agli avvocati purtroppo sono aumentate negli ultimi anni.
In Italia è cresciuta enormemente la deriva populista e giustizialista, c’è insofferenza verso le regole del Diritto. È sempre più diffusa l’idea che i temi della giustizia penale debbano essere affrontanti dal punto di vista della pancia della pubblica opinione. Se questa è la regola prevalente, allora cresce anche il pericolo per gli avvocati di fare il loro mestiere.
Nel momento in cui scriviamo ancora non ho letto messaggi di solidarietà del Ministro Bonafede verso gli avvocati minacciati. E se non erro non ci sono state neanche in passato per episodi simili.
Bonafede esprime un punto di vista politico e culturale, quello che lo ha portato a diventare Ministro, che appartiene a quelle dinamiche populiste di cui stiamo parlando.
Lei su Facebook ha scritto: «Sarà bene che tutti voi leoni da tastiera, ma ancor di più voi cronisti, editorialisti, opinionisti, scatenati in questi giorni – con qualche eroica eccezione – nel pronunciare sentenze definitive di condanna, vi ficchiate in testa una volta per tutte che in dubio pro reo è la regola fondativa della Giustizia penale».
La qualità della comunicazione giornalistica ancora una volta insegue la pancia, cerca consensi facili e avalla questo desiderio di giustizia sommaria. La responsabilità è quindi principalmente dei mezzi di informazione che dovrebbero saper discernere, ma anche della politica che cavalca qualunque occasione nella quale si possa incontrare il consenso.
Un’altra polemica di cui ci siamo occupati in questi giorni è quella riguardante la magistratura di sorveglianza, dopo l’evasione di Johnny lo Zingaro.
I magistrati di sorveglianza hanno forse il compito più delicato dell’intero sistema giudiziario, che è quello di lavorare sulla fase di recupero sociale del detenuto. Di provvedimenti come quelli per Giuseppe Mastini ce ne sono migliaia al giorno: però si dà la notizia dell’unico caso in cui qualcuno non rientra dal permesso, celando il fatto che per altri migliaia di casi invece procede tutto regolarmente. Si fornisce così un messaggio squilibrato e falso. È fisiologico che tra le persone che si avvicinano a scontare la pena in forma diversa da quella carceraria ci sia qualcuno che venga meno al suo impegno. Mettere in croce i magistrati di sorveglianza perché una irrisoria percentuale di detenuti sfugge al sistema è sintomatico di quel clima di cui discutevamo.
Il Garante Palma ricordava nell’ultima conferenza stampa che i suicidi in carcere sono in aumento. Se la stessa attenzione riservata ai giudici di sorveglianza venisse indirizzata anche verso questa problematica sarebbe importante.
Certo, appunto. Vede la grande responsabilità dell’informazione? Tutto dipende da quale notizia scegli di dare: se decidi di raccontare solo di quell’uno su mille che non rientra in carcere sottrai alla riflessione collettiva il problema dei suicidi non solo dei detenuti ma anche degli agenti penitenziari.
Questa polemica segue a quella dei “boss e mezzi boss” ancora in detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto al Ministero della Giustizia di conoscere quando sarebbe giunto il loro fine pena, per quali reati sono detenuti e quando e perché si è aperto il fascicolo con la richiesta di detenzione domiciliare. Ci hanno detto che è impossibile perché è un lavoro immane.
Questo è il problema: non si parla dei fatti ma si procede per allusioni. È bastato che il Dap facesse una indagine approfondita per venire a sapere che il numero degli scarcerati si era dimezzato. Sarebbe anche interesse del Ministro in questo momento avere un quadro preciso e rispondere a queste vostre richieste. Si capirebbe che il concetto di “boss e mezzo boss” è qualcosa di ridicolo. Sappiamo benissimo che in alta sicurezza ci sono anche semplici corrieri alle associazioni criminali: persone che devono sicuramente scontare la loro pena ma che sono a tutto concedere di medio calibro criminale.
Qualche anno fa chiedemmo anche di sapere quante sono le misure cautelari richieste dal pubblico ministero rispetto a quelle effettivamente disposte dal gip. Anche questo dato è impossibile da conoscere.
Non glielo diranno mai, forse il Ministero neanche conosce questi dati perché non riesce a raccoglierli.
O forse non vogliono darceli perché ci permetterebbe di avere un quadro più completo e attendibile dei meccanismi di funzionamento dell’istituto delle misure cautelari.
Forse non vogliono raccogliere questi dati o forse non gli vengono trasmessi dalla Procure o dagli uffici del gip. Qui c’è un problema generale di accesso ai dati dell’amministrazione giudiziaria. Si tratta di uno dei temi a cui vogliamo dedicare la nostra iniziativa nei prossimi mesi. Lo dissi già nel mio programma elettorale: crediamo che i dati statistici non siano una proprietà riservata del Ministro di Giustizia ma siano dati che devono essere facilmente e chiaramente accessibili alla pubblica opinione, ai giornalisti, alle associazioni, ai partiti politici. Non riusciamo ad avere informazioni neanche con le interrogazioni parlamentari. Si tratta di un fatto assurdo che non ha nulla a che fare con la riservatezza: non chiediamo nomi e cognomi, o posizioni individuali ma dati statistici. Sapere quante sono le misure cautelari richieste e quelle concesse deve essere un dato alla portata di mano di tutti. Questa deve essere una grande battaglia di civiltà.
Del caso Battisti cosa pensa? La Cassazione ha confermato per lui l’isolamento.
Non conosco i dettagli del caso ma dico che Battisti deve godere dei diritti di tutti i detenuti, come umanità della pena in quanto essa non è una vendetta.
Ieri l’Ucpi ha organizzato una conferenza stampa “Per Ebru, per Aytac, per la difesa dei diritti umani in Turchia”. Forse tutto questo sarebbe stato evitabile se la Turchia fosse nell’Unione Europea.
Questa è un’antica battaglia radicale, possiamo dire visionaria, che forse avrebbe modificato questa storia. Purtroppo oggi abbiamo una Turchia dove i diritti fondamentali sono fortemente messi in discussione e dove gli avvocati sono veramente in pericolo. Ricordo che la collega turca che è morta in carcere – perché non si abbia l’idea che siamo sideralmente lontani dalla Turchia – era stata arrestata per concorso esterno, per favoreggiamento di una associazione terroristica della quale non faceva parte. Né più né meno che il concorso esterno nel reato dei propri assistiti con cui abbiamo iniziato questa intervista. Questo è un fatto allarmante verso il quale le nostre cronache giudiziarie sono del tutto estranee.
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