Di violenza, non violenza, storie difficili hanno sempre parlato i film di Marco Bellocchio. Il regista, Leone d’Oro alla carriera, è da sempre attento ai diritti degli ultimi. Una sensibilità che lo ha portato, dopo aver conosciuto Pannella, ad avvicinarsi alla galassia radicale tanto da candidarsi in parlamento con la Rosa nel Pugno. Non a caso, mentre i suoi colleghi sono presi tra gli ingranaggi della mostra del cinema di Venezia, Bellocchio è l’unico a dedicare un pensiero originale alla protesta nonviolenta di Cesare Battisti, al terzo giorno di uno sciopero della fame e delle cure a oltranza. «Una protesta legittima», ha detto, soprattutto perché «contraddice la condotta violenta della sua militanza terroristica. Per questo ha una sua nobiltà, in quanto non violenta».

«Essere in carcere con l’ergastolo e chiedere un trattamento più umano con una protesta non violenta come lo sciopero della fame di Gandhi e Pannella è una manifestazione di resistenza umana», dichiara al Riformista. «Una prova che nobilita chi, sbagliando, ha usato la violenza nel passato e oggi ammette la superiorità della non violenza. Un gesto che non ha bisogno dell’approvazione di nessuno, e tanto meno della mia, ma che non merita neanche la condanna che leggo».

È la prima volta che parla di Cesare Battisti. La colpisce la pena all’isolamento diurno, che sta scontando nel carcere di Oristano?
Mi colpiscono, anche se non sono cattolico, le conversioni. Cesare Battisti era un violento che diventa un non violento. Non voglio entrare nel merito della sua vicenda, né della condanna e del modo in cui vedo che la pena viene inflitta. Altri possono commentarlo meglio di me. E faccio presente che non l’ho mai appoggiato, negli anni che furono. Neanche quando tanti intellettuali lo appoggiavano. Non ho mai detto che la giustizia su di lui ha sbagliato. Penso però che il carcere debba essere un luogo umano e non infernale, tutto qui.

L’occhio del regista è attento alla sofferenza. Lei la ha analizzata in tutte le sue opere, da Pugni in tasca in avanti.
La sofferenza appartiene a ciascuno di noi, e tutti siamo attenti a scansarla e a negarla. Ma poi la viviamo, e quasi speriamo di scansare la nostra addossandola a qualcun altro. Penso che in questi tempi di pandemia e di angoscia diffusa la paura dell’altro sia aumentata. Abbiamo paura dell’altro al punto da temere che la sua sofferenza possa trasmettersi a noi, come un contagio.

A quali categorie dell’altro sta pensando?
L’altro che soffre e ci fa paura: gli immigrati, su tutto. I poveri. Gli anziani. I malati. E i detenuti, appunto. Come se la pandemia riguardasse gli ultimi, che hanno difficoltà a curarsi, più che i ricchi. Cosa falsa oltre che sbagliata. Ed è falso e sbagliato cavalcare il populismo di chi pensa che trattare male i carcerati possa far parte della pena, come una integrazione di sofferenza suppletiva. Non bastano gli anni in carcere, o meglio ancora l’ergastolo. Bisogna che siano vissuti con tutte le difficoltà e le pene possibili, nella maniera più afflittiva possibile.

Un supplemento afflittivo funzionale a fogare la rabbia e la paura?
La gente guarda a problemi reali più vicini e più immediati, ma quando viene a conoscenza delle condizioni di vita in carcere, si gira dall’altra parte. Ma c’è qualcuno che cavalca la sofferenza, ne ricava un vantaggio elettorale, mostrando i muscoli. Si fa il contrario di quel che dovrebbe farsi, e cioè si disarticola la società piuttosto che compattarla, riannodarla.

La vede spaccata? In che modo?
La nostra è una società sempre più aggressiva. E c’è anche un altro tema, generazionale. Vecchi e giovani è un tema mai risolto. Si richiede ai giovani un tipo di responsabilità che esige una grande solidarietà. Si richiede sicurezza sanitaria, prudenza in tutti i comportamenti, sobrietà nelle relazioni, distanza fisica. Ma i giovani vogliono vivere. Peccato che in questa Italia trascinata gli intrecci famigliari sono ancora così importanti, tanto che ci sono continui contatti tra nonni e nipoti, tra chi porta a casa la pensione e chi aspetta l’argent de poche per uscire la sera. È sbagliato per i giovani e sempre più pericoloso per gli anziani.

Nei suoi film ha indagato la violenza, la brutalità. È colpito dall’omicidio di Willy, a Colleferro?
Penso che in troppi, non solo tra i giovani, vivano oggi troppo alla leggera. Si parla e si agisce senza pensare, senza freni. Ecco, si vive tutto senza freni.

Come fosse tutta fiction?
È come se la sovraesposizione alle immagini avesse reso tutti attori. Chiunque si sente un attore sulla scena, anche nella vita di tutti i giorni. Tanta televisione, tanti video, tanti social network portano le persone a comportarsi in modo irrazionale. Anche nelle semplici espressioni: si passa subito all’offesa, all’insulto, alle minacce e all’aggressione verbale, che poi può diventare fisica. Ci si esprime in pubblico senza più ritegno, senza vergogna.

Colpa della rete? È un effetto, come dice Sartori, della videocrazia?
La rete ci rende disponibile un oceano di informazioni, in cui tutti dicono tutto – spesso scambiando il falso per il vero – e sono permesse le cose più orrende. Sui social network le parole escono in libertà, le conversazioni trascendono immediatamente. E forse anche la televisione ha le sue colpe.

Quali?
Aver dato appunto a tutti la presunzione, la falsa illusione di potersi trasformare in attori. La cosa riguarda anche il mondo dell’informazione: appena succede qualcosa a un cittadino, che scompare o muore, ecco che la televisione ne mostra tutte le foto personali, prese appunto dai profili social. Abbiamo tutti una seconda immagine, quelle della vita privata. La televisione ha abbattuto un filtro, mostra la vita privata di chiunque senza filtri, tanto che chiunque si sente il potenziale protagonista di un momento pubblico.

Come diceva Andy Warhol. A ognuno un quarto d’ora di celebrità…
E questo rischia di trasformare la percezione della realtà. Perché il bisogno di arrivare alla notorietà televisiva rischia di trasformare ad esempio qualche giovane sfaccendato in un antieroe.

Anche la politica è diventata un arte performativa?
Sì perché senza la televisione non esiste il consenso. Chi ha il potere va in tv, chi va in tv ha il potere. E chi non va in tv per qualche settimana scompare dalle agende della politica. Poi ci sono anche figure che hanno un rapporto diretto con il territorio, il collegio e hanno meno bisogno di essere presenti mediaticamente. Ma è come se il passaggio televisivo certificasse il potere.

Lei non va mai in tv. Come mai?
Appunto perché riconosco di non essere adatto a parlare di tutto. Se esce un mio film, vado a parlarne. Poi niente più. C’è invece una compagnia di giro in Italia, fatta da cinquanta o sessanta persone che sono sempre costantemente in televisione. Fanno spettacolo, come Sgarbi. Ha quel ruolo. È come nel casting di un film, ciascuno viene selezionato per interpretare un personaggio che piace a una fetta di pubblico. E così ecco Mughini, Cacciari, Salvini e perfino Renzi e Calenda. Trovano il loro palcoscenico. Alzano i toni, chiamano l’applauso. Ma quando nei talk show va via l’uno e parla l’avversario, tutti applaudono lo stesso. Perché celebrano il momento performativo, non le idee nello spessore del loro contenuto.

A inventare la televisione di massa come la conosciamo oggi è stato Silvio Berlusconi, che oggi lotta per guarire dal virus.
Nel bene e nel male ha sdoganato l’immagine, come abbiamo detto, e l’ha resa pubblica. Ha portato il video nelle case di ciascuno. Giudicherà la storia. Oggi voglio solo augurargli ogni bene, una totale guarigione e lunga vita. Anche perché abbiamo quasi la stessa età.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.