Mettiamo in fila i fatti. Un ostaggio israelo-statunitense rapito il 7 ottobre del 2023, Edan Alexander, è rilasciato da Hamas dopo 19 mesi di prigionia. La liberazione avviene senza apparenti controprestazioni da parte di Israele, e cioè senza il pagamento del prezzo normalmente preteso da Hamas per rilasciare gli ostaggi, ovvero la liberazione di centinaia di terroristi palestinesi. L’operazione si compie per effetto di rapporti diretti tra gli inviati di Donald Trump e i sequestratori, con l’intercessione del principale garante di Hamas: il Qatar. Dopodiché Bibi Netanyahu si affretta a pubblicare un video in cui, felicitandosi per la liberazione dell’ostaggio, spiega con evidente mancanza di convinzione che lo sviluppo positivo è dovuto a due fattori combinati, vale a dire la pressione militare di Israele su Hamas e lo sforzo “diplomatico” di Donald Trump.

Ora facciamo un passo indietro, al mese di luglio dell’anno scorso. Qualche giorno prima dell’attentato cui scampava per un soffio, Donald Trump dichiarava che avrebbe scatenato l’inferno se, per la data del suo insediamento, Hamas non avesse rilasciato “i nostri ostaggi”, cioè i rapiti del 7 ottobre con cittadinanza statunitense. Si poteva pensare, al tempo, che si trattasse di un mero espediente retorico nella guerriglia elettorale, organizzato per sbattere in faccia all’opinione pubblica il disinteresse dell’amministrazione Biden per la sorte degli ostaggi americani. In realtà non era soltanto questo. Non era un confinato episodio comunicazionale visto che, di lì in poi, Trump reiteratamente avrebbe alluso alla sua determinazione di liberare “i nostri ostaggi”.

È ancora incalcolato – ma sarà alto – il costo che Israele dovrà sostenere nella subordinazione all’inevitabile alleanza con gli Stati Uniti di Donald Trump. Il Qatar che Bibi, curiosamente, giusto qualche settimana fa definiva “uno Stato non nemico”, era quello che il giorno stesso dei massacri imputava a Israele la responsabilità del 7 ottobre. Ed è quello che ora preme su Hamas per liberare l’ostaggio caro a Trump senza aver fatto nulla, per 19 mesi, per liberarne nessuno. È vero che nel frattempo la nuova amministrazione statunitense ha sbloccato le forniture di armi che l’alleato-ostile Joe Biden centellinava. È vero che all’Onu e nelle Corti della giustizia internazionale gli Stati Uniti hanno smesso di assistere inerti, quando non compiacenti, allo stillicidio di iniziative anti-israeliane che continuavano in carta bollata l’assalto allo Stato ebraico. Ma era visibile che non sarebbe stata gratuita quella nuova piega dell’amicizia americana, e via via si è fatto sempre più evidente il rischio che il corrispettivo richiesto da Trump risultasse anche più salato rispetto a quello preteso dal predecessore.

Biden cincischiava sulle bombe da 2.000 libbre, ma non dava dei “bravi ragazzi” ai plenipotenziari del Qatar; Trump non ha problemi ad assicurare quel sostegno militare a Israele (anche se lo fa pesare a Bibi in mondovisione), ma se gli vien buono organizza senza perplessità, tagliando fuori Israele, il commercio adatto a liberare il “suo” ostaggio. È la differenza che c’è tra un partner conflittuale e uno inaffidabile. Uno non più facile dell’altro, quando il divorzio è impossibile.