Non ha ricevuto l’attenzione che meritava la lettera con cui Alfredo Cospito ha illustrato le ragioni della propria iniziativa. E si spiega. C’era infatti in quelle righe manoscritte, prive di qualsiasi retorica, la denuncia di una realtà accantonata, la spiacevole quanto innegabile realtà di un potere pubblico che si rende autore di violazioni intollerabili e soprattutto non necessarie – se non a fini soltanto vendicativi – quando appresta il regime carcerario del 41bis.

Questo anarchico responsabile di delitti gravi, per quanto meno gravi rispetto a quelli attribuiti ad altri; questo soggetto certamente pericoloso, per come lascia intendere di potersi abbandonare ulteriormente alla commissione di illeciti altrettanto e forse più gravi; insomma questo “delinquente” ha tuttavia messo in fila lungo quella sua lettera negletta le ragioni che indicano dove sta l’ingiustizia, e cioè nel potere dello Stato che riduce in questo modo e a questo scempio la vita delle persone. Dice Alfredo Cospito ciò che tutti sanno senza che nessuno faccia nulla perché l’andazzo cambi, e cioè che quella cui sono costretti i detenuti in regime di 41bis è “non vita”. E a questa “non vita” Cospito vorrebbe sottrarre non solo sé stesso ma chiunque.

Dice di amare la vita, pure se fosse quella di un detenuto messo però in condizione di crescere, di migliorarsi, di trarre nutrimento e speranza dalle letture che desidererebbe e che invece gli sono vietate come tutto il resto: perché è appunto la vita a essere vietata con il 41bis, e ciò che la sostituisce è la “non vita” dell’isolamento assoluto, il regime di reclusione che non prevede nessun contatto con nessuno, nessuna possibilità di ricevere conforto da un amico o da un familiare, nemmeno la possibilità di avere con sé la fotografia dei genitori, in un generale trionfo di sopraffazione che giunge a punte tragicamente ridicole come il divieto d’ascolto della musica melodica.

E dice infine, Cospito, di non volersi sottrarre alla condizione che lo affligge facendo ciò per cui lo Stato torturatore gli darebbe un premio: lotta senza rinnegare la propria responsabilità, senza assolversi dalla propria criminalità, e in questo modo si condanna all’irrisione e riprovazione comune. Ma in questo modo la sua lotta semmai si nobilita. Perché in questo modo, vale a dire non assolvendosi da nulla, denuncia un’ingiustizia che pretende di farsi giusta in base al criterio più osceno, e cioè misurandosi sulle colpe di chi la subisce.
La società ha il diritto di tenere in prigione Alfredo Cospito. Ma avrebbe il dovere di sentirsi in debito con lui: perché è da lui, non dallo Stato che lo imprigiona, che viene una speranza di maggiore giustizia.