Era il 1986. Il 10 febbraio a Palermo iniziava lo storico maxiprocesso a “cosa nostra”. A fine anno venne inserito nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41-bis. Poche righe destinate ad arginare le rivolte nelle carceri, pensate soprattutto per tenere a bada soprattutto i terroristi più irriducibili. La norma prevedeva che «in casi eccezionali di rivolta» o in «altre gravi situazioni di emergenza», il Ministro della giustizia potesse sospendere l’applicazione delle regole di trattamento dei detenuti. Con una limitazione fondamentale, tuttavia: la sospensione doveva avere «la durata strettamente necessaria» al fine di «ripristinare l’ordine e la sicurezza». Insomma, si trattava di gestire in via eccezionale situazioni carcerarie fuori controllo.

Da allora sono trascorsi 35 anni. Un’eternità nel frullatore impazzito della modernità. Quella norma è ancora lì, anche se è rimasta praticamente inutilizzata. Eppure, la regola a qualcosa è servita. Messo in piedi lo “stato d’eccezione”, a quell’unico comma, se ne sono aggiunti nel tempo altri dieci che hanno regolato minutamente il cosiddetto regime speciale di detenzione per come lo conosciamo. Aperta una breccia nel trattamento eguale dei detenuti e scardinato l’orientamento della pena verso la rieducazione, i carcerati sono stati distinti non più secondo la loro personalità, ma per classi di reati. Da una parte i detenuti ordinari dall’altra quelli speciali perché sono quelli che rispondono di reati speciali. La discussione sul cosiddetto carcere duro è sempre stata al calor bianco. Gli scontri sulla severità delle restrizioni, sull’inumanità di taluni vincoli, sull’asprezza delle condizioni detentive hanno impegnato settori non marginali della pubblica opinione e hanno registrato l’intervento, a più riprese, della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale preoccupate di mitigare alcune evidenti esagerazioni.

Non è questo però, o meglio non solo questo, il prisma attraverso cui occorre guardare a questo fenomeno che non può dirsi trascurabile perché mette in fibrillazione le istituzioni e la società civile in quella terra di confine in cui più precario è l’equilibrio tra la funzione rieducativa della pena (per i condannati), la presunzione di innocenza (per i tanti sottoposti a regime speciale, ma in attesa di giudizio) e il divieto di irrogare «trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27 della Costituzione). Comunque mettiamo pure da parte le singole prescrizioni e le piccole vessazioni su cui in tanti si accapigliano a torto o a ragione. Mettiamo in conto che vada tutto bene e che tutto sia non solo legittimo, ma finanche giusto. Il punto è un altro. Per un attimo non occupiamoci delle minute proibizioni e sforziamoci di osservare lo scenario come fosse decantato dalle grida d’allarme dei supporter della carcerazione dura, sempre pronti a segnalare minacce incombenti che, si dice, qualunque attenuazione del carcere speciale non farebbe altro che accrescere.

Per cogliere questa diversa prospettiva non è necessario avere pregiudiziali ideologiche, basta tornare all’ odierno articolo 41-bis per come si è innestato su quel piccolo virgulto del 1986: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica … il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti … in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento .. che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». In tanti guardano al dito e trascurano la luna, anche se riluce sotto il riflettore di parole chiare. Perché il carcere duro sia legittimo è indispensabile che «ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica». Occorre cioè che il paese o parti di esso versino in una condizione di insicurezza e di disordine generalizzati. C’è da chiedersi chi sia disposto a fare una simile affermazione quanto meno a partire dagli inizi di questo nuovo secolo e a portare solide argomentazioni a riprova di quanto sostiene.

La domanda a cui occorrerebbe dare una risposta equilibrata e fondata su dati oggettivi è se davvero la situazione della criminalità in Italia sia tale da mettere in stato di pericolo l’ordine e la sicurezza collettiva e, per giunta, in modo grave. Sia chiaro non è una conclusione che può trarsi a cuor leggero prendendo in prestito le periodiche denunce di sacerdoti e vestali di una certa antimafia ampiamente screditata da manigoldi di vario genere e che non può neppure essere affidata alle valutazioni di soggetti più o meno interessati al mantenimento dello stato d’emergenza per ragioni a occhio e croce poco commendevoli. È indiscutibile che negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso associazioni, donne, uomini, case editrici e produttori televisivi hanno svolto, a prezzo carissimo, un ruolo essenziale nel denunciare connivenze, debolezze, assenze dello Stato nella lotta alle mafie. Ma questo, decenni dopo, non può essere il termometro con cui lo Stato definisce uno snodo così fondamentale della propria azione nella materia vitale della sicurezza e dell’ordine pubblico. Qualunque osservatore esterno, volgendo lo sguardo al nostro sistema penitenziario e penale, ne ricaverebbe l’impressione di un paese in stato d’assedio, in cui la vita dei cittadini è resa precaria da orde di criminali invincibili, e soprattutto nel Mezzogiorno.

Per carità, può darsi che sia così, ma certo manca da sempre una pacata riflessione sulla giustificazione stessa dell’articolo 41-bis ossia se davvero la condizione della sicurezza e dell’ordine pubblico sia oggi gravemente compromessa dalle mafie oppure se si possa convenire sul fatto che centinaia di arresti e di confische hanno fiaccato e indebolito i clan un po’ dappertutto con capi storici che muoiono in cella. Declaring Victory si è solito dire quando una guerra volge irrimediabilmente in favore di uno dei belligeranti. Lo hanno fatto gli Alleati nel 1943 quando mancava ancora tanto per battere le forze dell’Asse. Alla vigilia dell’arrivo di oltre 200 miliardi di euro dai paesi del nord Europa il tema è cruciale. È chiaro che si debba fare il massimo sforzo per impedire che anche un solo centesimo finisca nelle mani delle cosche e dei sodalizi illegali. Quel che non dovrebbe essere consentito, però, è che il solito circuito mediatico-giudiziario scaldi i motori e attraversi in lungo e in largo la penisola e il continente denunciando infiltrazioni, malversazioni, accaparramenti di cui non si abbia prova concreta e per cui non si disponga di evidenze inoppugnabili.

Lo si sta facendo persino con i vaccini, da stoccare a meno 80 gradi. Tanto, come diceva un vecchio cronista, finché le mafie non si danno un ufficio stampa non possono smentire. È indiscutibile che i boss siano alla continua ricerca di contatti con l’esterno. È indiscutibile che gli stessi boss intendano riallacciare contatti con i propri affiliati per continuare i propri affari. Quel che, tuttavia, non deve andare smarrito è che una Nazione ha il dovere di chiarire se questi comportamenti, comuni invero a tutte le carceri del mondo, possano giustificare lo stato d’eccezione ovvero se il Paese ha ormai la forza per reprimere ogni devianza, senza necessità di creare tante piccole Guantanamo.