C’è un’isola del tesoro nella guerra visibile e segreta che gli americani combattono in Medio Oriente ed è il Qatar. Sì, è vero, geograficamente non è un’isola ma è un luogo di isolati prodigi che ha fatto carriera tra gli emirati del Golfo un tempo sottomessi all’Arabia Saudita, giocando una partita che non porta denaro (il Qatar è straricco e finanzia gli altri) perché il suo tornaconto consiste in una polizza a vita per l’esistenza e l’indipendenza. Finora, il Qatar ha guadagnato rispetto anche per il valore acrobatico delle sue mediazioni talvolta fortunate ma non tutte e senza nemici. I primi a capire le potenzialità del Qatar sono stati gli Usa, tanto è vero che il Dipartimento di Stato guidato da Blinker organizza pellegrinaggi frequentissimi. L’emiro ha appeso un cartello, per i soli addetti i lavori: qui non si spara. Sarebbe facilissimo per gli israeliani aggredire con uno o venti raid su Doha per liquidare i capi politici di Hamas, come lo sarebbe per gli americani e anche gli iraniani che in questi ultimi giorni stanno mostrando una passione per l’arte del pistolero colpendo nemici in Siria, Iraq e Pakistan. Doha e i Qatar sono un santuario perché custodisce un tesoro: la comunicazione mediata e fruttuosa fra soggetti che si parlerebbero solo con missili e bombe.

Nel Qatar, Joe Biden sta giocando in silenzio la carta di un riassestamento fra Israele, l’Autorità palestinese e Hamas sperando di giocarla – se la fortuna gli arriderà, il che è poco probabile – all’apertura delle urne il 5 novembre prossimo. Ecco perché l’emirato viene trattato con la massima cura e tutti ne rispettano la neutralità, che però non è come quella svizzera visto che si tratta di un lembo di terra e di mare in cui simpatie e alleanze cambiano con la logica incompressibile del celebre “Tè del Cappellaio Matto” di Lewis Carroll. I Democrats hanno un bisogno disperato di un solido e scintillante successo in politica estera, tale che riporti all’ovile democratico filopalestinesi e filoisraeliani. Il quartier generale di Donald Trump punta sull’intransigenza distruttiva di Netanyahu, visto che sono rari i repubblicani di origine palestinese, mentre ce ne sono migliaia di americani di origine araba che detestano i palestinesi per le sanguinose occupazioni dell’Olp negli anni Ottanta, specialmente quella in Libano e poi in Tunisia, sotto le bandiere dell’Olp di Yasser Arafat.

Oggi è un dato di fatto che nessuno degli Stati arabi, dall’Egitto alla Giordania (che è uno Stato palestinese creato nella Cisgiordania dagli inglesi un secolo fa) per non dire della Libia o del Marocco vuole dare asilo nemmeno provvisorio agli abitanti di Gaza. Adesso la guerra di Gaza ha investito per iniziativa degli Houthi filoiraniani, anche il Mar Rosso bloccando il canale di Suez che gli Stati Uniti stanno cercando con l’uso della forza molto calcolata e concentrata di bloccare il vertiginoso aumento dei prezzi sui mercati europei per le impennate dei premi d’assicurazione e i costi della circumnavigazione dell’Africa. Questo dell’emirato ribelle è diventato dunque lo scacchiere privilegiato per le chance di rilancio di Biden, ma lo sforzo sta trascinando con sé tutti gli effetti collaterali comprese le esibizioni di nervosismo di Vladimir Putin e il visibile timore cinese di essere trascinati in avventure militari totalmente sgradite, con in mezzo l’attivismo iraniano in una fase di espansione aggressiva messa per iscritto con un comunicato di due giorni fa in cui il governo di Teheran annuncia che colpirà, come ha già fatto i Siria, Iraq e Pakistan, senza alcun riguardo per le frontiere comprese quelle dei Paesi amici. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno in Qatar la più grande base aerea del Medio Oriente cosa che torna molto utile mentre Doha si trasforma nella nuova Bagdad delle Mille e una Notte, in cui coabitano Cia e Mossad, inglesi, Usa e Francia, ma dove hanno casa stabilmente i capi di Hamas.

C’è di più: fu proprio a Doha che gli americani chiesero, d’accordo con gli israeliani, di ospitare Hamas in fuga dall’Arabia Saudita. Oggi il giovane emiro, fratello dell’altro giovane emiro che fece un colpetto di Stato contro il padre emiro, ricevendone in cambio un contro-colpo di Stato famiglia ed è lui con i suoi fratelli che dovranno prendere decisioni. Oggi, tocca al Qatar premere su Hamas affinché rilasci i cento ostaggi ancora prigionieri nelle viscere di Gaza City. E poi toccherà al Qatar scegliere se abbandonare Hamas al suo destino. Doha è ora affollatissima e l’emiro distribuisce in alberghi separati gli uomini di Teheran, gli israeliani, i Sauditi – che cercano di mantener vivo il progettato “Accordo di Abramo” con Israele, mentre i russi sono per ora tenuti a distanza.

La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato stanno dunque puntando tutto il loro potere di influenza, militare e di persuasione per far ripartire la mediazione di Doha mettendo Benjamin Netanyahu nella condizione di placare il “partito degli ostaggi” se Doha avrà ancora potere su Hamas. Queste notizie provengono in larga parte dal saggio che il professor Yoel Guzansky ha pubblicato su Foreign Affair in qualità di Senior Fellow all’Istituto di Studi di Sicurezza Nazionale di Tel Aviv in cui ha servito per anni come membro del Consiglio Nazionale di sicurezza Israeliano; la sua ricostruzione dei fatti dello stato della guerra e delle trattative non va certo a genio a Bibi Netanyahu. Fu proprio lui ad autorizzare i finanziamenti di Doha a Gaza per favorire un potere antagonista all’Autorità Nazionale Palestinese. Ma mentre il corrotto Abbas ancora sosteneva i due Stati, Hamas lanciava la parola d’ordine secondo cui dalla riva del Giordano a quella del mare deve essere tutta Palestina senza lo Stato di Israele. E quel programma di eliminazione di Israele, rifiutando uno Stato palestinese e usando il terrorismo come innesco della guerra, è il programma che trova consenso fra i giovani palestinesi. Intanto si avvicina il 5 marzo, “the Big Tuesday” o martedì fatale, in cui caucus e primarie decideranno il candidato repubblicano che sfiderà Biden.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.