Il processo e le polemiche dei moralisti
Perché Silvio Berlusconi è stato assolto al processo Ruby Ter
Ci sono voluti due interventi di Piero Ignazi (Il Domani, 19 febbraio) e di Massimo Recalcati (La Repubblica, 21 febbraio) per innalzare l’asticella della discussione sul caso Ruby-ter e sull’ennesima assoluzione di Berlusconi. Si tratta di due prese di posizione complementari, per così dire, per molti versi condivisibili e che cercano da prospettive culturali diverse di rimettere ordine nel caleidoscopio delle prese di posizione scomposte e delle tifoserie contrapposte all’opera in questi giorni.
Si dovrà tornare su questo, ma per il momento un punto si staglia con una certa evidenza: le lunghissime ed estenuanti vicende giudiziarie del Cavaliere sono stati uno dei luoghi privilegiati in cui si è sviluppata e ha preso corpo quella visione a-legale e a-costituzionale della giustizia che pretende siano irrilevanti sentenze di assoluzione o clamorosi fallimenti dell’accusa perché quel che conta è la solitaria convinzione che ognuno ha delle colpe dell’imputato. Un atteggiamento eversivo, anarcoide, distruttivo che mina le basi stesse del sistema giudiziario, sostituito da un magmatico tribunale delle coscienze che attinge alla verità bypassando ogni carta, ogni prova, ogni obiezione e appellandosi al fuoco sacro e infallibile della propria intuizione.
Tanto tra le pieghe dei faldoni, nelle minuzie delle carte, nei sottintesi delle parole, nelle suggestioni delle motivazioni esiste sempre la possibilità di individuare un metatesto che lascia intendere che l’imputato, in fondo in fondo, era colpevole e che, purtroppo, l’ha fatta franca. Non importa l’esito dei processi, il verdetto delle aule, quel che rileva è solo se il nostro pregiudizio, le nostre antipatie, i nostri antagonismi possono trovare una conferma in qualche anfratto delle carte a dispetto della verità proclamata dai giudici in nome del popolo italiano. Poveri giudici con le mani legate dalle prove, dai codici, dal confronto tra accusa e difesa; potessero proclamarla quella colpevolezza, così d’istinto, che dubbi avrebbero, la penserebbero anche loro così. Ma la tagliola della democrazia ha le sue regole, mozza la mano di chi vuole afferrare la verità; e allora si lasci spazio alla coscienza del popolo, ai suoi sacerdoti che randomanticamente conoscono le sorgenti del vero, ai suoi sciamani che leggono i segni celati dalla polvere delle regole.
È un giudice infallibile quello che si alimenta di sospetti, di suggestioni, di accostamenti e di illazioni. Silvio Berlusconi suscita – invero non immeritate – antipatie, disturba, provoca dissenso, talvolta indignazione, ma questa volta è innocente; questa volta non ha commesso il terribile reato di corruzione in atti giudiziari che prevede pene pesantissime. In una bellissima lettera (Il Foglio, 17 febbraio) Alessandro Barbano ha reso evidente quanto sessismo, quanto perbenismo, quanto intransigente moralismo postmoderno abbia avvelenato la narrazione delle donne coinvolte nell’affaire Ruby. Storia pessima, terribile, squallida, ma risultata penalmente irrilevante, anzi insussistente, nella declinazione della più liberatoria delle formule di assoluzione.
È una storia emblematica questa, ma è appunto solo una storia tra le mille che connotano l’epifania giudiziaria del paese e di cui approfitta un certo squadrismo a sfondo moraleggiante per arrogarsi il diritto di ergersi sopra i tribunali della nazione per forgiare la vera verità, quella che meschini mercenari sono riusciti a confondere, a nascondere, a sovvertire. Perché un conto è conservare verso il Cavaliere, come contro qualunque imputato assolto, un risentimento etico o un giudizio estetico negativo, poco importa, altro è sostenere che le assoluzioni siano il frutto di una furbizia e di una truffa consentita solo a coloro i quali hanno mezzi per difendersi e avvocati di fama da mettere in campo.
Questo disinvolto eloquio reca un colpo micidiale alla credibilità della giustizia, poiché rende convinti i tanti colpevoli, giustamente condannati, che il sistema lo avrebbero potuto anche loro fregare e aggirare se solo fossero stati ricchi e potenti. Un vittimismo di ritorno che nuoce profondamente alla percezione della giustizia e che i pusher giustizialisti alimentano per ragioni di potere personale e per pulsioni eticamente retrograde. In un paese civile a nessuno dovrebbe essere consentito di porre in dubbio la correttezza dei verdetti e ribaltarne il contenuto a dispetto delle evidenze; e questo si consideri vale sia per gli assolti che per i condannati in via definitiva. Gli imputati, comunque vada, possono certo continuare a professarsi innocenti anche dopo tre gradi di giudizio e a dispetto di ogni prova, come da ultimo ha fatto l’onorevole Augusta Montaruli.
È loro diritto inviolabile, è la pietas democratica che impone rispetto non potendo pretendersi abiure e autodafé. Ma gli altri, gli apologeti di una giustizia “altrove” dovrebbero astenersi dal prendere posizione sui fatti sottoposti alla valutazione dei giudici non per trarne legittime valutazioni politiche o morali, ma addirittura per ribaltarne l’esito, per stigmatizzarne il risultato. È un malcostume tutto italiano e germinato proprio nel solco delle tante vicende di Silvio Berlusconi, imputato e politico, che ha causato una commistione di piani e una sovrapposizione di valutazioni che, da quel punto in avanti, ha travolto ogni separatezza e ogni prudenza con una continua collisione di mondi che il suo essere uomo pubblico ha inevitabilmente consentito.
Tra tempo, quando la polvere si sarà adagiata e la cenere avrà sostituito le braci si dovrà pur considerare quanto del “metodo Berlusconi”, ossia dell’approccio mediatico di contrapposte tifoserie alle sue vicende processuali, ha costituito l’esperimento generale, il banco di prova di un certo golpismo giustizialista e demagogico che ha travolto tanti e tanti altri casi e ammorba la Nazione. Uno schema moltiplicatosi all’infinito e precipitato in un rivolo di trasmissioni televisive, di pamphlet, di reportage che rivisitano processi conclusi, ne ribaltano le conclusioni, si accaniscono su micro incongruenze e inevitabili imprecisioni, dimenticando che il processo non è una scienza esatta, né un’equazione algebrica, non è destinato ad arginare e superare ogni dubbio, ma solo quello ragionevole ossia giustificato dalle carte e dalla razionalità.
L’approccio emotivo e partigiano che tre decenni di processi al Cavaliere hanno innescato nel paese si è propagato ovunque: sui delitti passionali come quello di Avetrana, sugli orribili infanticidi da Cogne a Brembate, su stragi e complotti, su ipotesi corruttive e ruberie varie. Il legittimo esercizio della narrazione giornalistica si è prosciugato nel rivolo dei media nazional-popolari e trasformato spesso in una sorta di perenne voyeurismo, di osservazione micragnosa e morbosa di ogni frammento per decostruire le verità giudiziarie e alimentare la tesi di verità occulte o, peggio, occultate.
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