Da quando il governo ha lanciato con grande enfasi il Piano Mattei, ormai un anno e mezzo fa, le relazioni dell’Africa con l’Occidente continuano purtroppo a deteriorarsi. Il debito pubblico di paesi come Egitto, Kenya e Nigeria è schizzato in alto mentre i pacchetti di prestiti e riforme della Banca Mondiale del Fondo Monetario Internazionale sono accolti da proteste e rivolte. Anche questa settimana si attendono dure e forse violente proteste a Nairobi.

Più che dell’Africa, questo piano ci parla dell’Italia e del nostro capitalismo politico. Il metodo scelto è rivelatore. Il governo aveva tre possibili strade. La prima era quella strategica: disegnare una “strategia italiana per Africa” e su questa base allocare spese e interventi. Il governo avrebbe potuto presentare una sua analisi del contesto geopolitico ed economico delle nazioni africane e definire aree tematiche, regioni e strumenti di intervento. Sarebbe stato necessario consultare governi, organizzazioni internazionali, operatori economici locali e ovviamente il Parlamento italiano. Al centro ci sarebbe stata la Farnesina e le risorse sarebbero state impiegate per lo più a fondo perduto o come prestiti di favore a governi. La principale critica che viene mossa al Piano Mattei è proprio l’assenza di strategia. È una critica legittima, anche se molte volte ci si è sforzati più per scrivere una strategia che per attuarla. Grandi ambizioni hanno prodotto documenti blandi. Un esempio per tutti è la Strategia Triennale dell’Italia per la Cooperazione. Meloni ha fatto la scelta opposta: prima i progetti e poi la strategia.

La seconda strada era puntare sullo sviluppo del settore privato africano. Regno Unito, Francia e Germania investono oltre due miliardi di euro l’anno ciascuno nel settore privato in paesi in via di sviluppo. Lo fanno attraverso istituzioni finanziarie pubbliche dedicate (gli equivalenti della nostra Cassa Depositi e Prestiti) che forniscono finanziamenti e partecipazioni di capitale ad aziende locali. Gli ambiti di investimento sono definiti dal governo ma le decisioni di investimento sono prese da esperti di mercato indipendenti. L’obiettivo è “creare mercati”, dimostrando con risultati sul campo che è possibile fare impatto sociale e ambientale senza perdere soldi. Per questo la separazione deve essere netta: le strutture ministeriali non hanno le competenze per selezionare questo tipo di progetti. Senza l’indipendenza sparisce l’obiettivo di queste istituzioni.

È una bacchetta magica? Purtroppo no: creare mercati richiede tempi lunghi, i progetti così selezionati faticano a fare sistema, bilanciare sviluppo e ritorno finanziario è un’arte più che una scienza e non tutti i problemi hanno soluzioni di mercato. In ogni caso, l’Italia nella finanza per lo sviluppo non ha mai creduto. La terza strada è puntare su campioni nazionali ed è la strada scelta del governo. Il Piano Mattei finora ha chiuso una sola operazione: un prestito del 2023 del Gruppo Banca Mondiale all’ENI su un progetto di biocarburanti di cui CDP si è poi presa una quota minoritaria di 75 milioni di dollari. Un progetto di valore anche se ENI ha prestiti per più quindici miliardi e non ha difficoltà a raccogliere finanziamenti senza ricorrere a risorse pubbliche.

Le altre iniziative annunciate riguardano la Leonardo su temi di cybersecurity e perfino il tentativo di recuperare il Broglio Space Center una piattaforma di lancio per satelliti fondata in Kenya dall’Agenzia Spaziale Italiana negli anni ’60 e semi abbandonata da oltre trent’anni. Tutto questo per dare nuove opportunità alla filiera italiana dell’aerospazio. Il Piano Mattei pare per ora soprattutto diplomazia economica trainata dai campioni nazionali con qualche modesto strumento a latere per le PMI. Un esempio: duecento milioni, di cui una parte a fondo perduto, distribuiti a sportello da SIMEST alle PMI per l’e-commerce, fiere e studi. Scelte legittime ma non un cambio di paradigma rispetto al passato. Nel contesto attuale è giusto anche pensare al rafforzamento di grandi aziende strategiche, ma è il Piano Mattei lo strumento adeguato? Quando una grande impresa veramente si vuole espandere lo fa con una strategia industriale, non con progetti a latere.

Un esempio di successo in Italia c’è ed è ENEL, che nel decennio scorso era diventata un leader mondiale nelle energie rinnovabili in Africa, Asia e America Latina. La scommessa di ENEL era veramente ambiziosa e come tutte le scelte strategiche ha avuto un costo: sono cresciuti i debiti, il titolo in Borsa ne ha risentito ed è stato proprio il governo attuale a invitare a un cambio di passo con un nuovo management che ha rivisto le ambizioni ma aumentato gli utili. Questa è la contraddizione del Piano Mattei. Si presenta come un’ambizione strategica a trazione africana ma nei fatti è una piattaforma diplomatica nazionale trainata dalle partecipate di Stato. E quando queste partecipate provano a essere veramente innovative (come lo fu l’ENI di Mattei) e rischiano è lo stesso governo a consigliare prudenza per portare utili al Tesoro.

Umberto Marengo

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