Che cosa potrebbero fare di più, i giudici di Cassazione, dopo che per ben tre volte hanno annullato i provvedimenti della magistratura di Catanzaro che ostinatamente tiene prigioniero ai domiciliari l’avvocato Giancarlo Pittelli? Le indicazioni dell’ultima sentenza, emessa nella serata di venerdì scorso, sono chiare, e il Tribunale della libertà del capoluogo calabrese non potrà che adeguarsi, e finalmente allora, si spera, l’ex parlamentare di Forza Italia potrà riavere la libertà.

Le accuse che tre anni fa portarono Pittelli in carcere, e poi ai domiciliari e poi ancora in carcere, dove il procuratore Gratteri lo vorrebbe ancora, e infine sempre prigioniero nella sua abitazione, sono state eliminate dalle sentenze della Cassazione come le foglie del carciofo. Una dopo l’altra, fino ad arrivare al cuore dell’ortaggio, che proprio cuore non è. Perché anche l’ultima imputazione, quella che tiene l’avvocato ancora con i polsi stretti nella custodia cautelare, è stata ormai demolita. È avvenuto in seguito alla presentazione di prove inequivocabili davanti ai giudici della Cassazione da parte del Presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza, che insieme agli avvocati Contestabile e Staiano assiste il collega catanzarese.

Potremmo aggiungere che quest’ultima “prova” presentata dai Pubblici ministeri avrebbe potuto finire da subito nella pattumiera, quella marroncina degli alimentari, insieme alle altre foglie esterne del carciofo, se le accuse che hanno riguardato Giancarlo Pittelli non fossero state così superficiali e sciatte. Come dimenticare il fatto che quando è capitato che, come si usa ancora al sud in segno di rispetto, alcuni personaggi dessero del “voi” all’avvocato, questo sia stato interpretato come sua complicità con la cosca mafiosa? Per non dire del fatto che qualche parola di gentilezza, qualche offerta di aiuto, magari per un bambino ricoverato in ospedale, sia stata scambiata per prova di sodalizio criminale. Tutti indizi che, secondo l’accusa, avrebbero rafforzato il quadro dell’appartenenza, sia pure con un ruolo “esterno”, dell’avvocato Pittelli alla cosca mafiosa.

Il cuore del carciofo porta il nome del “pentito” Mantella, e la “prova” in un’intercettazione ambientale. Una data, il 12 dicembre 2016. Pittelli è in auto con un certo signor Giamborino e parlano di quel collaboratore di giustizia. Commentano dei “sentito dire”, e l’avvocato Pittelli avrebbe rivelato al suo interlocutore che il collaboratore di giustizia avrebbe dichiarato ai magistrati un fatto che avrebbe incriminato il proprio fratello. Così i magistrati avevano dato per scontato che l’avvocato si fosse dato da fare per procurarsi in modo illegale dei verbali di interrogatorio secretati, e che avesse dei canali privilegiati per poter fare da trait-d’union con la cosca mafiosa e agevolarne l’attività criminale. La rivelazione di quella specifica dichiarazione del “pentito” sul fratello sarebbe la prova decisiva dell’attività di complice che l’avvocato Pittelli avrebbe svolto nei confronti della ‘ndrangheta.

A questo punto, domandiamoci perché i difensori del legale affermano senza ombra di dubbio che Pittelli è innocente. Perché sarebbe stato sufficiente controllare le date. A quella del 12 settembre 2016, giorno dell’intercettazione, il collaboratore di giustizia aveva già reso due interrogatori, in cui aveva parlato del fratello, effettivamente, ma solo per scagionarlo. Si parlava del prestito di un’auto, che era stata utilizzata per andare a compiere un omicidio. Mio fratello non ne sapeva niente, aveva detto Mantella. Se l’avvocato Pittelli avesse avuto accesso a quei verbali e avesse avuto l’intenzione di divulgarli per favorire la cosca e magari aiutare qualche mafioso a darsi alla latitanza, non avrebbe mai detto che il collaboratore di giustizia accusava il fratello, ma se mai al contrario che lo difendeva.

Se qualcuno, pubblico ministero o giudice avesse dimostrato più curiosità che pregiudizio, si sarebbe accorto del fatto che solo al terzo interrogatorio, cioè un mese e mezzo dopo rispetto al giorno in cui l’avvocato Pittelli fu intercettato mentre parlava con il suo assistito Giamborino, il “pentito” aveva detto che il fratello sapeva che i suoi amici stavano andando a compiere un omicidio. Lo aveva quindi accusato di complicità. Ma un mese e mezzo dopo. Dov’è quindi l’ “accesso indebito a atti omissati”? Dove è dunque finito quel quadro di “gravità indiziaria” per cui Giancarlo Pittelli deve continuare a essere prigioniero, oltre a tutto di un processo abbandonato dalla stessa procura e con due giudici su tre con la spada di Damocle delle ricusazioni?

Il processo Pittelli è tutto qui, nel cuore del carciofo. Ma è difficile dimenticare che, tra le foglie esterne del carciofo, quelle che ormai giacciono nella pattumiera marroncina degli alimentari, c’erano intercettazioni male interpretate se non manipolate, e anche l’accusa al legale di aver svelato altre notizie segrete, di cui in realtà avevano già parlato giornali e canali come Zoom. Ora la parola passa di nuovo al Tribunale della libertà di Catanzaro. Ma di foglie esterne da eliminare non ce ne sono più, è rimasto solo il cuore del carciofo. Insieme, si spera, a cuore e mente dei giudici che tengono nelle mani la vita di un imputato che, dopo tre anni di sofferenze, ha diritto a difendersi nel processo da uomo libero.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.