Ho sulla scrivania del pc un ritaglio del Sole 24 Ore. Porta la firma di Vera Viola ed è intitolato Nuova mappa della ricerca: una dozzina i poli strategici. L’articolo parla di una strategia, disegnata dal governo Conte, che prevedeva l’istituzione nel Mezzogiorno di otto “ecosistemi dell’innovazione” e di quattro reti tematiche di cui una – il polo Agritech – già localizzata a Napoli. Sembra un’era geologica fa. Invece il pezzo data 5 febbraio 2021.
È fuori discussione. Se c’è una cosa che disorienta gli investitori e chi ha voglia di intraprendere nel Mezzogiorno sono le chimere. Potremmo anche definirle “voli pindarici”. O meteoriti che graffiano la volta celeste per qualche secondo e poi spariscono. E ne abbiamo viste tante. Ricordo quante volte si è parlato di fiscalità di vantaggio tagliata su misura sul Mezzogiorno. E quante volte di Master Plan per il Sud, il cavallo di battaglia di Matteo Renzi. Penso a quanta enfasi si è messa sulle zone economiche speciali, che come ha osservato Nando Santonastaso sul Mattino sono evaporate senza lasciare traccia. Lost in the wind. E ancora: quante ne abbiamo sentite e quant’ancora ne sentiremo Ponte sullo Stretto: sì, no, forse, domani è un altro giorno, si vedrà.
Era venerdì 5 febbraio 2021, poche settimane fa. Il Sole 24 Ore ricordava che sono (erano?) una decina circa le proposte di poli di innovazione digitale all’esame di Bruxelles partite dal Sud. Perché l’Unione europea promuove gli investimenti in tecnologie, infrastrutture e processi digitali degli Stati membri. Punta ad «accrescere la competitività europea su scala globale e per favorire la diversificazione e la resilienza delle catene del valore europee». All’Italia, che se ne è spesso dimenticata, impone di «recuperare il profondo divario digitale in infrastrutture e cultura».
Per recuperare, almeno in parte, tale ritardo, la strategia ideata dall’ex ministro Gaetano Manfredi aveva gettato in fondamenta un pilastro, ossia le “reti tematiche nazionali”, appostando su quella partita anche una dote di 1,6 miliardi, da spalmare su tutto il Paese, dedicate alle infrastrutture di ricerca, gli incubatori di startup, le imprese. Le reti non calano dal cielo, nella visione dell’ex ministro, come la manna, ma si incardinano nelle preesistenze scientifiche dei territori. Ne sono (ne erano?) previste sette in Italia e la metà nelle regioni del Mezzogiorno. E il progetto Agritech si dice che avrà un hub centrale a Napoli. Notizia ripresa da tutti i giornali, che ne parlano, appunto, per lo spazio di un mattino: il polo troverà nell’area dismessa della ex Manifattura Tabacchi di Napoli est, resa disponibile da Cassa Depositi e Prestiti che ne è proprietaria e che partecipa (partecipava?) all’iniziativa anche nel ruolo di venture capitalist.

Sono passati meno di quindici giorni da allora e uno tsunami si è abbattuto sul sistema politico italiano. Arriva il governo insediato sotto la guida di Mario Draghi. Il nuovo premier ha portato in Senato le sue dichiarazioni programmatiche. Solo poche righe riguardano il Mezzogiorno, ma la questione è nota. Molti si attaccano alla speranza. Draghi sa meglio di tutti che la principale anomalia europea è il divario interno dell’Italia. Ma l’Italia si distingue anche per un’altra anomalia, se possibile più grave. Siamo l’unico Paese dell’Europa occidentale dove un cambio di governo somiglia un colpo di dadi del gioco dell’oca: si ritorna al punto di partenza. Si ricomincia da capo. Italia, raro esempio nel mondo occidentale di instabilità semipermanente del quadro politico e istituzionale.

Arriviamo al punto, allora. Sarebbe necessario, tra le regole che santificano i principi del rigore europeo, trovasse spazio la “clausola imprescindibile della continuità”. Non è forse per la facilità con cui noi italiani sovvertiamo i programmi e rovesciamo i progetti (anche quelli già cantierabili) che le autorità europee hanno richiesto espressamente che il Piano nazionale di ripresa e resilienza che porterà la firma di Mario Draghi impegni l’Italia nei prossimi sei anni? Non è questa la motivazione per cui l’Europa ci chiede di vincolare le riforme necessarie per ottenere i 209 miliardi del Recovery Fund?

Si tratta, tra l’altro, di riforme che non potranno essere rinnegate dai governi che eventualmente succederanno a quello dell’ex presidente della Banca centrale europea. Per un elementare principio di stabilità politica, ogni governo nuovo deve essere costretto a ripartire dalle iniziative avviate e finanziate da chi c’era prima. Divieto assoluto di gettare giù dalla torre, a ogni passaggio di testimone, le cose fatte o previste dall’esecutivo precedente. L’Italia sarà pure un cavallo di razza, ma non di meno le servono le redini e il morso. Forse ci serve un sistema, che l’Europa ci impone, per obbligarci a essere più seri e conseguenti, se davvero intendiamo risalire la china con una crescita robusta e duratura e se vogliamo arrestare il declino del sistema-Paese che dura da almeno vent’anni.