Le recenti previsioni economiche della Commissione confermano che l’Italia sarà – tra i grandi Paesi dell’Unione – quello che impiegherà più tempo per tornare al livello di Pil pre-pandemia. E il Prodotto italiano nel 2019 era ancora lontano da quello del 2008… A ben vedere, sta in questa cruda realtà la ragione che ha convinto i partners dell’Unione ad assegnare all’Italia una quota più che proporzionale delle risorse Next Generation Eu (Ngeu): dato il livello del debito pubblico, l’incapacità di crescere di una grande economia come la nostra rappresenta una spada di Damocle sulla testa di tutti gli europei.

Il conseguimento dell’obiettivo di una crescita economica significativa e duratura era tenuto lontano da tre fattori fondamentali: l’impossibilità di accendere, a fini di ripresa, il motore della politica fiscale; l’incapacità del sistema politico di produrre riforme strutturali, in grado di elevare il Prodotto potenziale; il ritardo di sviluppo di gran parte del Paese (Sud). La decisione europea sul Ngeu ha vigorosamente aperto la strada per la rimozione del primo ostacolo: non solo è in arrivo il tanto desiderato “Piano Marshall”, ma la scelta di incardinare il Ngeu nel Bilancio dell’Unione e di fondare la restituzione del debito contratto su permanenti entrate europee apre la porta alla costruzione di una effettiva capacità fiscale dell’Unione o, almeno, dell’Area euro. La riconciliazione tra politica monetaria e politica fiscale non è realizzata, ma è robustamente avviata.

La formazione del governo Draghi, sostenuto dalle forze fondamentali sia del destracentro, sia del centrosinistra, crea le condizioni per l’approvazione -entro il 2023- di un coerente disegno di riforme strutturali che possa credibilmente aspirare a non essere cancellato nel futuro prossimo, quando -dopo le elezioni politiche del 2023- riprenderà la “normale“ competizione tra schieramenti contrapposti, entrambi (a quel punto, non ora) “dominati” da forze liberali ed europeiste. Anche a questo scopo, dovrà essere il presidente del Consiglio Draghi a scegliere -tra le riforme da mettere in cantiere subito, in stretta connessione colla riscrittura del Recovery Plan-, non quelle più “facili” (non ce ne sono), ma quelle meno divisive: Pubblica Amministrazione, per renderla parte della soluzione invece che parte del problema.

Giustizia civile, per renderla effettivamente più veloce, agendo su applicazione delle tecnologie dell’informazione e introduzione di magistrati-manager degli uffici giudiziari (vale anche per la giustizia penale, ma qui ci si potrebbe limitare, per ora, a cancellare l’obbrobrio della prescrizione mai). Scuola, facendo leva sulla effettiva autonomia degli istituti scolastici, sulla carriera degli insegnanti, sulla valutazione di tutto e di tutti, sulle dispari opportunità da garantire alle realtà territoriali e sociali e ai bambini meno fortunati per dotazioni familiari. Sanità, per ottenere un rafforzamento effettivo della dimensione territoriale del Servizio Sanitario Nazionale, che ha evidenziato gigantesche carenze anche nelle Regioni più dotate di ospedali di eccellenza.

Sono riforme che si possono realizzare solo se si è disposti (e attrezzati) a combattere dure battaglie contro i difensori dello status quo (che ci sono e non tarderanno a mobilitarsi). Ma il larghissimo sostegno politico di cui può godere il governo Draghi lo mette nelle condizioni migliori per farcela: vengono infatti a mancare forze politiche di opposizione in grado di rappresentare -lucrandone vantaggi elettorali-, coloro che contrastano le riforme. Tanto più che la necessità di intrecciare riforme e progetti del Recovery Plan renderà possibile, nei prossimi tre anni, accompagnare l’indispensabile cambiamento con attività volte a “risarcire“, almeno in parte, quanti potranno legittimamente ritenersene penalizzati. Il Sud, per la crescita economica, non è un fattore di difficoltà da rimuovere, ma una potenzialità da utilizzare appieno: tutti sanno e ripetono che, nella grande corsa della crescita economica, quelli che stanno da più tempo davanti tendono a rallentare la velocità, mentre chi sta dietro ha la possibilità -a certe condizioni- di correre più velocemente.

Quali sono, in buona sostanza, queste condizioni? La prima e più importante ha a che fare con le tendenze prevalenti nella economia globale: un complesso insieme di fenomeni -che qui non possiamo analizzare, perché frutto dell’intrecciarsi di fattori economici, geostrategici, demografici e di sicurezza- tende ad accorciare le catene del valore, innescando processi di “riavvicinamento“ delle varie fasi e componenti del processo produttivo ai mercati di sbocco più grandi e più ricchi (in primis, il mercato unico europeo). Se ne può giovare il Mediterraneo (specie col raddoppio delle capacità del Canale di Suez), che può fare delle tendenze demografiche divergenti tra la sua sponda nord -in riduzione- e la sua sponda sud -in forte aumento- un fattore di crescita potenziale di lungo periodo. E, nel Mediterraneo, può giovarsene l’Italia, in particolare con la Sicilia e il Sud, per la sua ovvia natura di piattaforma a potenzialità globali: punto di raccordo di traffici lungo le direttrici sud-nord e est-ovest.

Un forte incremento quali-quantitativo del capitale umano del Sud (ottenuto grazie all’intreccio tra riforma della scuola e investimenti sulle infrastrutture materiali e immateriali che la sorreggono), unitamente ad un gigantesco investimento sulla mobilità delle merci e delle persone (Alta Velocità ferroviaria, porti e autostrade del mare), possono consentire al sud d’Italia di utilizzare questa “rendita mediterranea“ che la mutata globalizzazione mette a sua disposizione. Anche su questi temi, a uno sguardo distratto, regna l’unanimità dei consensi: chi può mai essere contrario a trasporti più veloci e sicuri? Ma è una crosta che nasconde ben altra realtà. Un recente quaderno della Fondazione Per (https://perfondazione.eu/quaderni/il-mezzogiorno-in-movimento-proposte-e-progetti-verso-il-next-generation-eu/) lo mette bene in rilievo: nel Recovery Plan presentato dal governo Conte 2 la vera Alta Velocità -quella che c’è da Torino a Salerno, per intenderci- è del tutto assente, sostituita da scelte di miglioramento della rete ferroviaria esistente, che costano molto e promettono di lasciare il Paese dove l’hanno trovato: diviso in due, tra i territori raggiunti dall’Alta Velocità e quelli che la possono solo sognare. Secondo questi studi, non è questione di soldi. O, almeno, quella delle risorse non è la questione essenziale.

Il nodo da sciogliere è di visione sul futuro del Paese e sulle sue potenzialità: se pensi che l’unico motore della crescita è il Nord, che “trascina“ il Sud che arranca, potrai anche accrescere il volume dei trasferimenti al Sud, per finanziare politiche redistributive più eque, ma le nuove linee ad Alta Velocità le farai al Centro-Nord, mentre al Sud “velocizzerai“ quelle che ci sono: “Non c’è abbastanza traffico, per un investimento così grande”. Salvo meravigliarsi se il Prodotto potenziale del Sud cresce meno di quello (che pure cresce poco) del Centro-Nord. E non basta: del Ponte sullo stretto ne parlerai nelle fasi di vacche grasse, salvo dimenticarlo quando (cioè, negli ultimi decenni, pressoché sempre) l’economia italiana faticherà a tenere il passo con quella del resto d’Europa. Come se fosse un consumo di lusso da accarezzare, ogni tanto, con il pensiero dell’impossibile; non l’infrastruttura fondamentale che può far passare dalle parole ai fatti tutto il gran chiacchierare che si fa sulla Sicilia “naturale piattaforma logistica dell’Europa al centro del Mediterraneo”.

Il Governo Draghi ha nelle sue corde questo radicale mutamento di punto di vista. Ma non basterà, se le riforme strutturali che accompagneranno il Recovery Plan non saranno dotate -ciascuna e nel loro complesso-, di una declinazione in chiave meridionalista (ciò che mancò, ad esempio, per la Buona Scuola del governo Renzi). E se il complesso delle istituzioni politiche fondamentali del Sud -per iniziativa della società organizzata e del ceto politico regionale e locale- non saranno orientate a sostenere e a promuovere l’iniziativa dei produttori di beni e servizi (ad essere più inclusive, come scrivono Acemoglu e Robinson nel loro Perché le nazioni falliscono), riducendo progressivamente la quota di ricchezza e potere che tendono ad “estrarre” dalla società meridionale stessa.