L’Italia ha ottenuto i 209 miliardi del Recovery Fund innanzitutto perché la Commissione ha riconosciuto come il divario Nord-Sud sia un punto critico per l’economia nazionale e, quindi, ha posto lo sviluppo del Mezzogiorno come prima condizione per l’utilizzo dei fondi. Nella bozza del Piano di resilienza portata in Consiglio dei ministri dal premier Giuseppe Conte si fa riferimento alla clausola del 34% come tetto per l’utilizzo dei fondi al Sud. In realtà, tale clausola, ancora non rispettata, è stata introdotta nel nostro ordinamento per fare in modo che, rispetto agli investimenti in conto capitale interni al Paese, almeno il 34% riguardi il Sud. Tale quota rappresenta la percentuale di popolazione meridionale rispetto al dato complessivo nazionale.

Perciò c’è stata una levata di scudi degli istituti meridionalisti. In particolare, il presidente di Svimez, Adriano Giannola, ritiene che, in base alle linee-guida del Recovery Fund, debba essere riconosciuto al Sud almeno il 60% delle risorse a disposizione dell’Italia proprio perché il divario con il Nord è stato riconosciuto tra i più ampi tra i Paesi europei. Il Governo precisa che i fondi destinati al Sud nei prossimi anni saranno più che sufficienti in quanto va considerato anche il Piano Sud 2030 e la programmazione dei fondi strutturali 2021/2027. Mai come in questa occasione, tuttavia, il problema non sta tanto nella quantità dei fondi messi a disposizione del Sud, quanto nella qualità dei progetti anche rispetto agli effetti che produrranno. Diventa fondamentale curare non solo il supporto alla progettazione, ma soprattutto il monitoraggio sul corretto utilizzo delle risorse. Bisognerà coniugare al futuro questo intervento straordinario che non a caso si chiama Next Generation.

L’Europa ci chiede nuove politiche di sviluppo basate sull’innovazione digitale, sulla transizione ambientale e sull’eliminazione del divario Nord-Sud sia dal punto di vista infrastrutturale che nella fruizione dei cosiddetti diritti di cittadinanza: istruzione, sanità e mobilità. Nel Rapporto del G30 Mario Draghi spiega bene come per lo sviluppo servano uno sguardo lungo e progetti ad alto rendimento tali da giustificare l’investimento pubblico e garantire la crescita e la diminuzione del debito.

Tuttavia, stando alla bozza del Piano italiano circolata nei giorni scorsi, sembrerebbe che ben pochi tra i progetti indicati possano garantire quei rendimenti elevati auspicati da Draghi. Intanto, buona parte dei crediti europei servirà a coprire programmi di spesa già esistenti, come nel caso della ferrovia Napoli-Bari, per liberare risorse nazionali già impegnate ed evitare un significativo aumento del debito pubblico. Rispetto ai nuovi investimenti, nella bozza circolata, si parla, per esempio, del potenziamento dei porti di Trieste e di Genova e non si fa cenno ai porti meridionali e alla funzione del Sud come grande piattaforma logistica integrata proprio quando, nel nuovo contesto internazionale, per l’Europa diventa fondamentale guardare al Mediterraneo. È scomparso dal dibattito il ponte sullo stretto di Messina che pure sarebbe utilissimo per estendere la rete alta capacità/alta velocità alla Calabria e alla Sicilia.

L’Italia non eccelle nell’utilizzo dei fondi europei e le regioni del Sud hanno il dovere di fare autocritica per la gestione delle risorse comunitarie. Tuttavia la soluzione non può stare nella nomina dell’ennesima task-force nazionale che andrebbe a sovrapporsi all’Agenzia per la Coesione e alle strutture ministeriali. Il ministro Giuseppe Provenzano e il direttore di Svimez Luca Bianchi, in una pubblicazione del 2010 dal titolo Ma il cielo è sempre più su?, di fronte alla scarsa efficienza delle Regioni e delle amministrazioni centrali avevano suggerito una terza via: concordare con Bruxelles poche priorità da finanziare, definire obiettivi da raggiungere chiari e verificabili e accettare un sistema di valutazione indipendente, europeo.

Già Carlo Trigilia, nel 2009, aveva invocato una Maastricht per il Mezzogiorno con un intervento su Il Mattino e considerazioni simili erano state espresse nel rapporto predisposto da Fabrizio Barca per la Commissione europea in vista della definizione della nuova politica di coesione per il post 2013. Quindi, per sfruttare al meglio i fondi europei stanziati per le prossime generazioni e provare a ridurre il divario Nord-Sud in un disegno unitario con una logica di sviluppo nazionale, bisogna ripensare il sistema di governance delle politiche pubbliche attraverso l’imposizione di vincoli esterni assai più stringenti che nel passato: occorre un rafforzamento della capacità di indirizzo e controllo da parte della Commissione europea sia nella fase di progettazione che in quella di monitoraggio della spesa.