La lettera di Dombrovskis e Gentiloni ha messo a nudo ciò che era chiarissimo a tutti: il Pnrr (Recovery Plan) stilato dal governo Conte era un libro delle idee (non sempre chiarissime) senza alcuna struttura operativa. Mettiamo da parte a questo punto l’ennesima dimostrazione di inefficienza del nostro sistema politico-amministrativo e speriamo nel nuovo governo, soprattutto considerando l’immensa esperienza di Draghi e la sua conoscenza dei meccanismi di funzionamento della Commissione. Per ora abbiamo dimostrato ancora una volta di non aver capito che l’Europa ci misura non sui “sogni politici” ma sulla capacità reale di realizzare le cose.

Come avevamo scritto due mesi fa su queste stesse pagine, i commissari europei, al netto delle cortesie istituzionali, ci fanno notare che senza un adeguato piano di riforme è impossibile spendere una massa economica assolutamente fuori scala rispetto a qualsiasi intervento straordinario mai realizzato nel nostro Paese. La riforma del sistema amministrativo, la revisione del codice degli appalti e la riforma della giustizia civile rappresentano la base su cui misurare il governo Draghi e hanno rappresentato il principale fallimento del governo Conte. Sono le precondizioni necessarie per rendere realizzabile il Pnrr e trasformarlo da “libro dei sogni” in un’opportunità per il Paese.

Queste le condizioni minime, ma si può e si deve essere più ambiziosi. Il documento va migliorato nei contenuti e nella struttura, non tanto nelle sfide e nelle missioni – queste ricalcano le linee guida dettate dalla Commissione europea – quanto sulla struttura di governo, sulla definizione del livello territoriale di programmazione e attuazione e sulle linee di intervento. I primi due punti sono strettamente collegati tra loro, giustamente anche la Conferenza Stato-Regioni ha in pratica rimesso al Governo il documento che nulla dice sul coinvolgimento delle Regioni stesse nei processi di attuazione del Piano e meno ancora dice in merito alle città. Possibile che non si sia compreso che questa è la principale opportunità per trasformare i nostri centri metropolitani? Che per ottenere questo risultato sia necessario progettare piani integrati di sviluppo urbano? Che non ci sono ricette valide universalmente per tutti i territori?

Facciamo il caso che ci interessa di più: Napoli è una conurbazione metropolitana che conta circa tre milioni di cittadini, ha bisogno di un disegno unico che non può non partire dal capoluogo, ma che integri l’intera area e definisca non solo gli interventi necessari e immediati ma anche un’idea di città che possa essere realizzata nell’arco dei prossimi 10 o 15 anni, dando finalmente una prospettiva stabile di crescita a un territorio cui è sempre mancata un’idea definita di sviluppo, pur avendo una fortissima identità. Esempi di trasformazioni urbane di grande impatto degli ultimi venti anni quali Manchester, Barcellona o Marsiglia sono nate tutte da un’idea unica di crescita declinata con un quadro di intervento organico.

Come integrare un’area così vasta e variegata, una cittadinanza così disomogenea, un tessuto produttivo cresciuto con uno spontaneismo assolutamente disorganico? Queste le domande cui mi aspetterei di trovare risposte operative all’interno del Pnrr, che rappresenta un’opportunità unica per ridisegnare una città che ha bisogno di investimenti nell’ordine di diversi miliardi di euro. Il Piano dovrebbe definire come integrare le specificità territoriali con le necessarie linee di intervento nazionali, riconoscendo un peso differente di intervento in quelle aree che hanno maggiore necessità di trasformazione. Non è una mera difesa degli interessi meridionali ma non può esserci sviluppo senza un riequilibrio del Paese, soprattutto in merito alle infrastrutture materiali e immateriali.

Il piano, nella versione precedente, nulla diceva sulla distribuzione delle risorse, segnale pericoloso per i territori più deboli: una maggiore caratterizzazione territoriale degli interventi certamente sarebbe un ottimo segnale. Quello stesso piano era debolissimo, in pratica non dava alcuna risposta strutturata e non definiva un reale progetto di sviluppo per il Paese. In altre parole, non c’era dentro un “Piano Italia” che, partendo dalla trasformazione dei sistemi economici territoriali, sviluppasse una prospettiva economica globale. “Transizione digitale” e “transizione verde” sono due meravigliosi propositi, ma rimangono due titoli. Per riempirli di significati è necessario capire come si declinano sia a livello territoriale sia, trasversalmente, all’interno dei singoli sistemi economici del Paese.

Due mesi fa denunciammo l’assoluta assenza di programmazione partecipata con i territori e di misurabilità degli interventi. Abbiamo perso diversi mesi, ora però speriamo non si ripeta il solito errore, cioè quello di farsi prendere dalla fretta e  non intervenire con decisione su un documento che ha bisogno di essere completamente rivisto per salvare un Paese ormai alle corde.