C’è il sospetto che, a trent’anni dall’entrata in vigore del codice del 1989 che dovrebbe aver introdotto in Italia un sistema processuale “tendenzialmente” accusatorio, ci siano tra le toghe, anche tra i magistrati più giovani che proprio in quegli anni nascevano, molte resistenze. Per esempio nell’uso del patteggiamento e dei riti alternativi, che toglierebbero gran parte del carico ai tribunali. Ma ci vorrebbe una vera cultura laica del diritto, una visione della società che non dilatasse al massimo la pretesa punitiva dello stato (lo stesso papa Francesco ha denunciato l’”espansione dell’ambito della penalità”), che non identificasse la certezza della pena con la certezza del carcere, che non avesse come punto di partenza delle indagini la “pericolosità sociale” del soggetto invece che il singolo fatto criminoso.

Ci sono stati in passato procuratori come Maddalena e Zagrebesky ( e oggi il procuratore di Milano Francesco Greco) che hanno cercato, in modo isolato e quasi artigianale, di riorganizzare gli uffici in modo efficiente, anche prevedendo corsie preferenziali per tipologie di reato ben individuate. Ma rimangono esperienze appunto isolate, artigianali e a volte, come nel caso recente di Milano, osteggiate dagli stessi sostituti procuratori che dovrebbero metterle in atto.

La verità è che su tutta la vicenda del processo in Italia, e di conseguenza anche sulla prescrizione, aleggia da sempre lo spettro del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, il mostro che i costituenti vollero come garanzia di una giustizia uguale per tutti e a bilanciamento di una ritrovata indipendenza della magistratura, garantita anche ai pubblici ministeri, dopo la dittatura fascista. L’articolo 112 della costituzione oggi non ha più senso di esistere. Non nel sistema processuale di tipo accusatorio, pur se ambiguo e abbondantemente annacquato negli anni successivi al 1989 da una serie di piccole e grandi controriforme. Non per la palese contraddizione con un altro principio costituzionale, quello della ragionevole durata del processo che deve essere garantita a tutti i soggetti, imputati, vittime e parti civili.

Nel 1993, pur nel tumulto delle note vicende giudiziarie e politiche, ci fu un ministro di giustizia, competente e galantuomo, di nome Giovanni Conso, il quale nominò con decreto una commissione di riforma dell’ordinamento giudiziario composta da magistrati di vario orientamento. Quell’organismo lavorò e stese una relazione finale, nella quale mise una pietra tombale sul principio dell’azione penale obbligatoria, non solo prendendo atto dell’impossibilità  di perseguire tutti i reati, ma denunciando anche il fatto che tutti i giorni nei tribunali si commettevano ingiustizie con il totale arbitrio nelle mani dei pubblici ministeri. Quando c’era un ministro competente e galantuomo. Ora c’è Alfonso Bonafede.

Tiziana Maiolo

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