«Fugit irreparabile tempus» ricordava Virgilio nelle Georgiche. A meno che. A meno che qualcuno particolarmente fortunato non si trovi tra le mani la boccetta con dentro l’elisir di lunga vita, la pozione tanto ricercata dagli alchimisti di ogni tempo. Qualcosa di simile all’ambrosia che pasceva gli immortali dei dell’Olimpo è stata trovata e dal primo gennaio nutre i reati commessi in Italia i quali – benchè appena nati alle soglie di questo nuovo decennio – grazie alla riforma della prescrizione hanno in dote il gene dell’immortalità. O, quanto meno, della potenziale immortalità, visto che devono avere la possibilità di arrivare alla sentenza di primo grado, dopo di ché nulla potrà scalfirne la vita e per sempre. Per sempre si badi bene.

Ognuno dei reati appartenente a questa magica super razza geneticamente modificata potrà contemplare, con “olimpico” distacco è il caso di dire, le vicende degli uomini e dei processi. Potranno cambiare giudici e cancellieri, avvocati e pubblici ministeri, ma il novello Dorian Gray manterrà intatta la propria fresca giovinezza. Mentre a invecchiare sarà inevitabilmente il suo sfortunato ritratto, ossia l’imputato costretto a fare i conti (anche economici) con un fardello immutabile e imperturbabile. E insieme a lui la parte offesa e lo Stato pure loro costretti a convivere anni con cittadini la cui innocenza o colpevolezza non è accertata in tempi ragionevoli.  Ridotto all’osso è questo quel che accade quando il legislatore immagina di poter somministrare – in una macchina giudiziaria ai limiti del collasso – la pozione dell’eterna gioventù all’oggetto del processo, rendendone potenzialmente perpetuo il fine che è quello di accertare le responsabilità personali.

Sia chiaro nulla di trascendentale, accade già così per il processo civile (iniziato il quale, nulla lo arresta) di cui però è leggendaria nel mondo l’epocale durata e che distrugge una parte consistente del Pil nazionale e degli investimenti privati. Solo che mentre il processo civile può, molte volte, restare compatibile con la sua tendenziale voracità temporale senza snaturarsi oltre misura, il nuovo modello penale divora i suoi figli in modo totale e senza scampo e, alla fine, vive per se stesso. Da Teodosio II – che nel 424 regolò la prescrizione e “l’usucapio libertatis” (lemma straordinario) – sino a Beccaria e oltre, tutti sono consapevoli che il fuggire del tempo affievolisce i diritti, quelli civili e quelli penali.  Se così non fosse il costituzionalismo moderno non avrebbe dovuto coniare la categoria dei diritti fondamentali e di quelli inviolabili, ossia coesistenti a ogni persona umana e, come tale, imprescrittibili.

Ci sarebbe da chiedersi se possa la pretesa dello Stato di punire i colpevoli assurgere a questa dignità assoluta e comprimere ogni altro diritto inviolabile (la presunzione di innocenza) o principio costituzionale e convenzionale (la ragionevole durata del processo). Sembra questa, al di là delle convenienze dei singoli o delle corporazioni in gioco, la vera partita che si sta disputando nei lunghi tempi supplementari che la riforma Bonafede, malgrado ogni scomposta polemica, ancora garantisce alla politica prima che il nuovo regime produca i propri effetti. Il ché rende il dibattito meno urgente, e come ha autorevolmente chiarito il professor Giorgio Spangher sulle pagine di questo giornale, consente di provvedere a quel reset della discussione che è indispensabile per affrontarla in modo serio.

Ci sarà un’altra occasione per discutere delle ragioni per cui i reati si prescrivono e su chi ne tragga vantaggio, ma ora è il momento di riportare i punti di vista nell’alveo dei principi generali per attuare quella ragionevole ponderazione degli interessi che la Consulta indica come imprescindibile faro e dovere dell’azione legislativa. Come in tutte le partite serie occorre evitare il doping e non pensare di vincere somministrando al reato pozioni magiche e frettolosi elisir che gli consentano di correre più a lungo e di vivere, se occorre, in eterno. In Italia gli unici reati imprescrittibili sono quelli puniti con l’ergastolo, e la sentenza di primo grado non appare una fatto processuale idoneo per equipararvi la costruzione abusiva di un balcone.