Voleva il processo pubblico e le telecamere fin dal primo interrogatorio, e finalmente ha avuto l’uno e le altre, Piercamillo Davigo, imputato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio per aver diffuso gli atti giudiziari sulla Loggia Ungheria, coperti dal segreto. Così ieri mattina l’ex procuratore milanese è comparso davanti ai suoi giudici e ha cercato subito quella visibilità che non gli è mai mancata, fin dai tempi di “Mani Pulite”, quando lui e gli altri capitani coraggiosi incedevano nel corridoio del quarto piano della procura di Milano, attorniati da cronisti adoranti e telecamere sempre sull’attenti per loro.

Ma qui siamo a Brescia nel 2022, davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Roberto Spanò, e Piercamillo Davigo siede dall’altra parte della barricata. Da quella “giusta” c’è una toga che è solo “ex” collega, che gli dà del lei e che, pur avendo concesso l’ingresso in aula delle agognate telecamere, annusa l’aria e mette le mani avanti: “Raccomando alle parti di non avere animosità”. Poi stoppa l’ex pm, già pronto a un’esibizione-fiume per guadagnarsi la centralità delle scena, oppure a vestire il ruolo della vittima qualora non gli fosse stata concessa la parola. Il giudice Spanò sceglie la via di mezzo, e gli consente solo le dichiarazioni spontanee, purché brevi. Davigo è costretto ad abbozzare e Spanò lo consola: “E’ difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Bonario, ma intransigente, il presidente della prima sezione del tribunale di Brescia. Così accetta, o finge di accettare i trenta testimoni chiamati a deporre dal pm, dallo stesso Davigo, ma anche da Sebastiano Ardita, il consigliere del Csm che si è sentito danneggiato dall’ex collega e che nel processo si è costituito parte civile contro di lui. Si vedrà in corso d’opera se saranno tutti indispensabili.

Ma sarà tutta una battaglia tra toghe, quella che si svilupperà in quest’aula. A partire, più che dalla prossima udienza del 24 maggio, quando sarà sentito Paolo Storari, dalla successiva del 28 giugno quando arriverà a giurare di dire tutta la verità il vicepresidente del Csm David Ermini. Sarà quello il primo momento delle scintille, delle versioni contrapposte. Le certezze storiche di Davigo, da una parte. Più o meno tutti gli altri, dall’altra, con l’eccezione del pm milanese Storari, suo complice nell’illegalità secondo la procura di Brescia, ma già prosciolto dal gup, con un provvedimento contro cui ovviamente pende già un ricorso. Proprio nei giorni in cui la magistratura militante minaccia un’incomprensibile astensione dall’attività giurisdizionale per protestare in particolare contro una pagella ritenuta una schedatura, un’ ex toga che ha fatto la storia della Repubblica Giudiziaria è a giudizio in sede penale proprio per quel tipo di comportamenti che nel fascicolo del magistrato sarebbero sottolineati con la matita blu. Non era più pubblico ministero, Piercamillo Davigo, ma componente del Csm, in quei giorni tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, in cui accoglieva a casa propria a Milano il sostituto procuratore Paolo Storari che lamentava il disinteresse del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nei confronti della deposizione dell’avvocato esterno di Eni Piero Amara e della presunta Loggia Ungheria.

Aveva ritenuto normale, l’ex pm di Mani Pulite, ricevere dalle mani del giovane ex collega quelle carte, in realtà una chiavetta, con la trascrizione di quegli interrogatori coperti da segreto. E poi andava a Roma e, sempre ritenendosi nel giusto, iniziava a diffonderli in modo “informale e senza alcuna ragione ufficiale”, violando i suoi doveri e abusando del suo ruolo. Così dicono i pm di Brescia. Perché quei verbali sono finiti nelle mani un po’ di tutti, o quasi, i membri del Csm, oltre che al vicepresidente Ermini, e poi al primo presidente della corte d’appello Pietro Canzio e al procuratore generale Giovanni Salvi. Ne è stato informato anche lo stesso presidente Mattarella. Ci sarà una bella sfilata di toghe qui a Brescia, nelle prossime sedute. E anche di ex amici di Davigo che ora vogliono solo vederlo finire allo spiedo. Francesco Greco prima di tutto, che da questa inchiesta è già uscito nella veste di indagato, ma che ha il dente avvelenato perché è stato costretto ad andare in pensione con l’immagine appannata dopo che la procura di Milano, anche a causa della vicenda Davigo-Storari (il vero vincitore, salvato dal Csm e prosciolto a Brescia), gli è esplosa tra le mani e lui se ne va con la reputazione dell’insabbiatore.

E oltre a tutto lo attende al varco anche un sospetto di abuso d’ufficio nell’inchiesta sul Monte Paschi di Siena. E poi David Ermini, la cui versione dei fatti è effettivamente un po’ barcollante, ma in netto contrasto con quella di Davigo. Dice infatti il vice presidente del Csm di aver ricevuto dalle mani del consigliere una cartellina arancione contenente la famosa deposizione di Amara, ma di averla buttata nel cestino. Giustamente l’ altro gli contesta il fatto che, se quelle carte fossero state così scottanti, non in pattumiera ma nel trita-documenti avrebbero dovuto essere collocate. Allora sei mio complice, gli rinfaccia Davigo. Scintille, scintille. Ma l’incendio si svilupperà all’arrivo dell’unica vera vittima di tutta quanta la faccenda, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, l’ex amicone e collega di corrente di Davigo.

Perché tutti parevano tramare alle sulle spalle, nei giorni in cui il famoso fascicolo passava di mano in mano, dopo aver letto nella deposizione di Amara il suo nome come uno dei componenti della Loggia Ungheria, che sarebbe, se esistesse, una sorta di nuova P2. Oltre a tutto scoperta negli stessi corridoi in cui qualche decennio prima Gherardo Colombo e Giuliano Turone avevano disvelato l’attività del Gran Maestro Licio Gelli. Ne sentiremo delle belle, in quell’aula. Anche da questo processo, dall’immagine che se ne proietterà all’esterno, passa la reputazione della magistratura e la tenuta o meno della Repubblica Giudiziaria.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.