Nel procedimento incardinato al tribunale di Brescia per la rivelazione del segreto circa la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria, uno fra Piercamillo Davigo ed il vice presidente del Csm David Ermini non dice la verità. Al momento questa è l’unica certezza in una vicenda che non ha molti precedenti nella storia Repubblica. I fatti sono noti.

Agli inizi del mese di aprile del 2020, il pm milanese Paolo Storari, dopo aver ultimato gli interrogatori di Amara insieme alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, percepisce che le indagini per verificare l’esistenza o meno della loggia Ungheria stanno battendo il passo. “Non bisognava toccare Amara”, racconterà poi Storari. Essendo in quel momento l’avvocato siciliano uno dei testimoni principali nel processo contro i vertici dell’Eni, accusati di corruzione internazionale, una sua eventuale incriminazione per calunnia, in caso si accertasse che la loggia non fosse mai esistita, avrebbe messo in grande difficoltà la Procura di Milano. Come il soldato Ryan, era allora fondamentale “preservarlo” da qualsiasi inciampo giudiziario.

Storari, già allievo prediletto di Ilda Boccassini, preso atto che il clima per fare indagini a Milano non era dei migliori, decide di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Davigo, all’epoca potente consigliere del Csm. Lo scambio dei verbali avviene a Milano, fatto che radicherà la competenza a Brescia. Davigo, in particolare, avrebbe tranquillizzato Storari dicendogli di non preoccuparsi per la possibile violazione del segreto d’ufficio in considerazione della pendenza delle indagini. Il segreto, secondo Davigo, non valeva per i componenti del Csm. Una volta ricevuti i verbali, invece di informare il Comitato di presidenza, come prevede la circolare in caso di esistenza di contrasti negli uffici giudiziari, Davigo inizia un’opera di loro diffusione a tappeto a Palazzo dei Marescialli. Uno dei primi ad essere edotto del contenuto di questi verbali, con l’incarico di “custodirli”, è il giudice Giuseppe Marra, un suo fedelissimo ed esponente di Autonomia&indipendenza, entrato al Csm a seguito delle dimissioni dei consiglieri che avevano partecipato all’incontro dell’ hotel Champagne.

Poi viene il turno di Ilaria Pepe, altra davighiana – anche lei entrata al Csm come Marra – di Giuseppe Cascini, numero uno della sinistra giudiziaria, di David Ermini, e quindi di Fulvio Gigliotti, laico in quota M5s e relatore della sentenza con cui si decise la cacciata di Luca Palamara dalla magistratura. Davigo parla anche con Stefano Cavanna, laico della Lega, informandolo però solo dell’esistenza di una indagine sulla loggia dove era coinvolto il pm antimafia Sebastiano Ardita, suo ex amico e collega. Del contenuto dei verbali Davigo informerà in seguito il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) e, per non farsi mancare nulla, le funzionarie amministrative del Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto. Quest’ultima successivamente accusata di averli spediti alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. Le testimonianze di Davigo e di Ermini sono quelle maggiormente divergenti.

“Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi perché la provenienza politica era la stessa di Lotti”, racconta Davigo al giudice dell’udienza preliminare la scorsa settimana. “Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promana da Mi e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in una intercettazione Lotti diceva ‘Ermini è morto’ facendogli fare un figurone”, prosegue Davigo, riferendosi alle modalità che avevano portato ad ottobre del 2018 all’elezione dell’ex responsabile giustizia del Pd a vice di Sergio Mattarella. Ermini, sempre secondo Davigo, a maggio del 2020 si era fatto fare una sintesi dell’indagine milanese per poter informare il capo dello Stato. In un secondo momento il vice presidente del Csm avrebbe chiesto i verbali a Davigo. Ermini sarebbe rimasto “impressionato dai nomi” degli appartenenti alla loggia contenuti nei verbali e, “dopo averli presi li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio”.

A distanza di due mesi da questo scambio, Ermini e Davigo andranno insieme alle terme di Merano. “Non era particolarmente turbato”, ricorda l’ex pm di Mani pulite, affermando anche che Mattarella gli avrebbe detto di ringraziarlo “per quanto fatto”, essendo le notizie avute sulla loggia “sufficienti”. Nulla di tutto ciò si sarebbe verificato per Ermini. Il vice presidente, ricevuti i verbali da Davigo, li aveva “immediatamente distrutti”. E sempre per Ermini, il presidente della Repubblica, ascoltando le notizie su Ungheria, sarebbe rimasto mummificato, “come una statua”, senza proferire verbo alcuno. Ermini, per la cronaca, fu determinante per la decadenza di Davigo il 20 ottobre 2020, giorno del settantesimo compleanno del magistrato, età massima per il trattenimento in servizio.

Fino a dieci giorni prima del voto del Plenum per il pensionamento di Davigo, i rapporti erano ottimi. Oltre ai bagni turchi alle terme di Merano, Ermini e Davigo infatti si frequentavano anche fuori dalla sala del Plenum. Durante una cena, Ermini avrebbe detto: “Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale (del Csm, ndr) e lui rimasto”. Dopo il voto del 20 ottobre “Ermini era molto dispiaciuto”, aggiunge comunque Davigo, prima di andare a ruota libera, svelando particolari inediti: “Io non volevo andare al Csm mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo”. Per sapere chi ha detto la verità fra Ermini e Davigo sarà necessario attendere il prossimo 20 aprile, giorno in cui si aprirà il dibattimento a Brescia.