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Putin tra due fuochi, dalla Siria all’Ucraina: la guerra per il prestigio e la “patria”
Il Cremlino ha perso terreno in Siria, un’onta che lo zar non può tollerare: ora deve puntare tutto sulla vittoria in Ucraina. Ma prima dell’insediamento di Trump: altrimenti lo scontro con gli Stati Uniti sarebbe inevitabile
Una tempestosa e schiacciante vittoria in Ucraina, netta e sanguinosa ma che non lascia margini di dubbio, è l’unica risposta che Putin e il suo circolo possano dare all’onta della cacciata dalla Siria. Il che significa che Putin non ha tempo né intenzione di aspettare l’insediamento di Donald Trump per raggiungere con lui un cessate il fuoco per chiudere il conflitto ucraino.
La batosta sulla via di Damasco è stata brutale ma non imprevista. Era chiaro da un mese che l’esercito di Bashar al-Assad non aveva la forza né la volontà di vincere contro la coalizione che marciava su Aleppo. Ciò che interessa alla Russia non è il tipo di governo che si installerà a Damasco, ma la sicurezza, che è stata subito garantita dai patrioti siriani, approdo per navi e sottomarini da guerra che Mosca ha acquistato con un patto di affitto fin dagli anni Settanta. Alexander Baunov, il più eminente analista del “Carnegie Russia Eurasia Center” ha reso pubbliche le previsioni sulle conseguenze siriane nella guerra contro l’Ucraina: “Putin”, ha detto, “è costretto a puntare tutto su una rapida e chiara vittoria in Ucraina, tale che possa recuperare la posizione di prestigio della Russia nella sua idea di graduatoria storica. O tutto o niente: dal suo punto di vista il destino del mondo sarà deciso nel Donbass e soltanto dopo la fine della partita ucraina la Russia potrà riaprire quella siriana”.
Una fregata, un sottomarino, una nave appoggio e una cisterna hanno lasciato la base logistica navale russa di Tartus e navigano in acque internazionali in attesa di nuovi ordini. A Mosca sanno che la guerra in Siria per ora è stata vinta dalla Turchia e che è stata rovinosamente persa dall’Iran. Dunque, il Cremlino sta rivedendo i parametri con cui misurarsi sia con Ankara che con Teheran. Nelle ultime quarantotto ore sia Vladimir Putin che il ministro degli Esteri Sergei Lavrov si sono dedicati a conferenze stampa e ai dibattiti pubblici come mai prima: è questo il momento più intenso dell’offensiva propagandistica che Putin affronta con la sua dialettica spesso distratta e sottotono, senza seguire una traccia scritta. Lo fa per ripetere i due concetti che secondo lui giustificano e anzi glorificano l’aggressione della confinante Ucraina.
Il primo concetto che Putin si rifiuta di riconoscere al popolo ucraino è l’identità culturale storica, etnica, religiosa e politica. Per lui non conta assolutamente nulla il desiderio di milioni di giovani nati nell’Ucraina già indipendente e senza alcuna memoria dall’Unione Sovietica. Il secondo (e Putin lo ripete senza stancarsi mai e senza essere mai interrotto, contestato dai giornalisti stranieri disciplinati come scolaretti che gli fanno domande insignificanti e balbettanti) è che l’Ucraina sarà pure un paese indipendente con un nome e un colore sulla carta geografica, ma non per questo ha diritto alla sovranità. Sovranità significa libertà e capacità di stringere alleanze militari e commerciali con qualsiasi paese voglia, indipendentemente dal gradimento del vicino russo.
Putin l’ha ripetuto più volte ogni giorno durante la crisi siriana: la Russia secondo lui ha un diritto storico – che prevale su quello giuridico internazionale – di impedire ai paesi indipendenti con cui confina di decidere le alleanze commerciali, culturali e di difesa militare. Questo mantra viene ripetuto quotidianamente da Sergei Lavrov, che parla un inglese più precipitoso che fluente, ripetendo la minaccia delle capacità missilistiche nucleari di Mosca e della decisione nota consolidata di usare con disinvoltura le armi proibite. Il suo è sempre un tono vittimistico che parte dall’idea di un grande complotto mondiale ordito dall’Occidente democratico per disintegrare l’enorme territorio di quello che fu l’impero zarista esteso per undici fusi orari, il più grande paese del pianeta – cosa che i circoli moscoviti temono in maniera ossessiva.
La crisi siriana ha dato la finale spallata: la Russia ha perso il controllo su un territorio importante anche se ha mantenuto la propria base navale, tagliata fuori dalla possibilità di manovra sul terreno. Ha fatto una figura orribile di fronte al nazionalismo interno che tifa apertamente per la guerra, per il prestigio nazionalista e per la tesi del complotto che è stata sempre l’ossessione sovietica. Nelle analisi russe si parla di Grande Guerra patriottica (il cui nome sostituisce quella che da noi è la Seconda guerra mondiale), perché combattuta per due anni da russi e tedeschi come alleati. Ma il richiamo ai sacrifici e alle perdite di quella catastrofica guerra è il punto di leva emotivo per fare appello al patriottismo della Russia bianca, quella di Mosca e San Pietroburgo, per sostenere l’imminente mobilitazione di trecentocinquantamila nuove reclute che hanno appena finito il loro addestramento, pronte a dilagare nel Donbass e da lì marciare su Kiev.
Vladimir Putin era rimasto raggelato dall’iniziativa di Donald Trump quando ha preannunciato la nomina del generale Keith Kellogg come suo proconsole sul teatro di guerra ucraino. La situazione oggi è così incerta che se si arrivasse all’insediamento di Trump con una situazione ancora fluida nel Donbass e nell’oblast russo di Kursk, che i corpi speciali ucraini hanno invaso e difeso dal 6 agosto, i rischi di un confronto militare con gli Stati Uniti crescerebbero.
Donald Trump finora ha pubblicamente riconosciuto a Joe Biden, in carica fino al 20 gennaio, la piena libertà di scelta e di azione in Ucraina: lo ha mostrato con un pranzo la cui immagine è virale, il consenso per azioni di contenimento nei confronti della Russia. Siamo nella fase che Machiavelli definiva “dei campi disegnati col gesso e speroni di legno per esercitazioni”. Ma i migliori esperti militari e civili avvertono che in questa fase Putin si è chiuso in una situazione in cui deve dimostrare di essere pronto a tutto, specialmente al peggio: dopo la perdita della Siria non può permettersi una nuova sconfitta, pena la tenuta di un regime che geme per la caduta libera del rublo e per l’aumento dell’inflazione.
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