Cazzolate
Altro che "non siamo in guerra"
Quando Churchill chiamò il “nuovo mondo”, la memoria corta di Putin (e di Crosetto)
Il 4 giugno del 1940 Winston Churchill pronunciò – alla Camera dei Comuni nell’ora più buia della Seconda guerra mondiale, quando tutto sembrava perduto – un discorso destinato a passare alla storia, per le parole del coraggio e della dignità: “Noi non ci arrenderemo mai”. Ma il primo ministro era consapevole di agire sulla base dell’ottimismo della volontà, tanto che subito dopo aggiunse: “E se, cosa che non credo neanche per un momento, quest’isola o gran parte di essa fosse soggiogata e ridotta alla fame, allora il nostro impero, al di là del mare, armato e protetto dalla flotta britannica, continuerà a combattere fino a quando, se Dio vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua forza e la sua potenza, farà un passo avanti per la salvezza e la liberazione del vecchio”.
Il vecchio leone – forte dell’esperienza della Grande Guerra – era consapevole che senza l’intervento degli Stati Uniti le democrazie non sarebbero sopravvissute alla furia nazista che, in quel momento, sembrava invincibile. Ma gli Usa entrarono in guerra solo nel dicembre del 1941, dopo l’aggressione nipponica alla base navale di Pearl Harbour. Peraltro fu la Germania a dichiarare guerra agli Stati Uniti, in conseguenza del patto che la legava al Giappone e all’Italia. Eppure Franklin Delano Roosevelt era già riuscito ad aggirare le pressioni isolazioniste dell’America First (non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole) sul Congresso, riuscendo a far approvare – l’11 marzo 1941 – la legge degli affitti e prestiti (in inglese Lend-Lease Act). Una misura legislativa che permise agli Usa di fornire a Regno Unito, Unione Sovietica (dopo l’aggressione nazista del giugno 1941), Francia libera, Cina nazionalista e altri paesi alleati grandi quantità di materiali bellici senza esigere l’immediato pagamento tra il 1941 e il 1945, come era previsto dalla legislazione previgente. Anche Joe Biden si è avvalso di uno strumento legislativo simile per aiutare l’Ucraina.
Sfruttando questo strumento finanziario, gli Usa inviarono all’Urss – dal 1941 al 1945 – 14mila aerei, 409.526 veicoli di cui 43.728 jeep, 3.510 mezzi anfibi, 12.161 blindati da combattimento, 136.190 pezzi d’artiglieria leggera, 32.5784 tonnellate d’esplosivi, 205 torpedini, 140 cacciatorpediniere, 28 fregate. Inoltre consegnarono 35.800 postazioni radio, 3.400 chilometri di cavi marini, 1.823 chilometri di cavi sottomarini, un milione e mezzo di chilometri di cavi telegrafici. Per agevolare gli spostamenti di truppe e armi dalla Siberia alla Russia europea, l’America consegnò all’Armata Rossa oltre 2.000 locomotive e più di 10mila vagoni. Il valore complessivo delle forniture fu di 11,3 miliardi di dollari dell’epoca (circa 180 miliardi di dollari nella valuta attuale).
Forse Putin farebbe bene a ricordarsene quando celebra la Grande vittoria patriottica. Per fortuna al Pentagono non c’era Guido Crosetto e il segretario di Stato non era Antonio Tajani. Quindi nessuno si preoccupò di vincolare le forniture belliche a un utilizzo solo difensivo, perché – peraltro la cosa corrispondeva al vero – gli Usa non erano in guerra con la Germania (come l’Italia – si dice oggi – non è in guerra con la Russia). Secondo questa logica agli aerei forniti al Regno Unito sarebbe stato interdetto di compiere missioni sulla Germania, essendo loro consentito soltanto di volteggiare nella battaglia di Inghilterra. Invece, secondo una direttiva del 9 luglio 1941, quando la Wehrmacht aveva già iniziato l’invasione dell’Unione Sovietica, il Bomber Command inglese iniziò il “moral bombing” con l’obiettivo primario di colpire il sistema dei trasporti e di abbattere in generale il morale della popolazione civile, soprattutto quello degli operai dell’industria. Come si diceva un tempo: à la guerre comme à la guerre.
© Riproduzione riservata