Ha suscitato un certo clamore (in questa estate senza Papeete, cubiste e libagioni a base di mojito con relativa foglia di mentuccia) un articolo de Il Sole-24Ore che annunciava urbi et orbi il disincanto dei lavoratori italiani nei confronti della possibilità di andare in pensione anticipata con la cosiddetta quota 100 (la somma di 62 anni di età e 38 di contributi). A giugno, secondo l’autorevole quotidiano economico, sarebbero state presentate meno di un terzo delle domande rispetto all’anno scorso. L’interpretazione di questo trend – si tratta del minimo assoluto – è attribuita alle conseguenti decurtazioni sull’ammontare complessivo dell’assegno pensionistico a fronte di una quiescenza anticipata; il che potrebbe oggi generare incertezze, percezione di un calo di reddito a fronte di una fase in cui si naviga a vista. Le domande sono state 47.810.

Subito i sindacati si sono buttati sulla notizia: le minori richieste farebbero risparmiare all’Inps circa tre miliardi, secondo le proiezioni dell’ufficio studi della Cgil. Allora –sembra sottinteso- perché prendersela tanto se la deroga arriva a scadenza? Certo nessuno pensa seriamente di modificare o abrogare questa norma: la si lasci morire di morte naturale, se ne faccia un bel falò e si spargano le ceneri nella sorgente del Po dove Umberto Bossi raccoglieva con l’ampolla l’acqua del battesimo del Nord. Almeno se ne riconosca, però, il sostanziale fallimento rispetto a tutti gli obiettivi posti e decantati nel decreto giallo-verde. Non un caso poi che le uscite con un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne – con i requisiti bloccati fino a tutto il 2026, sono ferme a 79.093 in giugno (-17%), ma sono comunque quasi il doppio di quelle passate per quota 100.

Vedremo perché è ingannevole considerare soltanto il numero degli anni di contribuzione richiesti senza dare la dovuta importanza all’età anagrafica (che è fondamentale nello stabilire il coefficiente di trasformazione, ovvero il moltiplicatore, per la quota soggetta al calcolo contributivo). Il Sole-24Ore segnala anche un calo di quelle uscite ultra-anticipate ma costose per le lavoratrici che prevedono grosse riduzioni sull’assegno pensionistico, tramite il calcolo interamente contributivo per l’intero montante. È il caso di Opzione donna, scelta appena da 8.842 persone nei primi due trimestri dell’anno, meno della metà delle domande presentate a giugno 2019. È segnalata anche una frenata sull’Ape.

Ma torniamo al punto: perché il cavallo non si abbevera nelle acque generose di quota 100? È opportuno ricordare – innanzitutto – che chi matura il diritto entro i termini previsti non è tenuto ad esercitarlo subito, ma se lo porta appresso nel tempo per avvalersene quando ritiene conveniente avvalersene. Un’altra spiegazione importante emerge (insieme a tante altre) dal Rapporto 2020 della Corte dei Conti (CdC) sul coordinamento della finanza pubblica. In concreto quota 100, anziché essere un criterio di flessibilità, si è rivelata un’uscita assai rigida, non solo per il modo in cui erano combinati i requisiti anagrafici e contributivi, ma anche per le caratteristiche della platea di lavoratori a cui era rivolta. Come è noto gli addendi di quota 100 (62 anni di età e 38 di versamenti) sono requisiti minimi ambedue necessariamente concorrenti (non è consentito, ad esempio, neppure una sola diversa combinazione, tipo 61 +39 o 60 + 40).

I dati raccolti dalla CdC dimostrano che ad azzeccare di preciso la quota 100 doc (ovvero 62+38) sono state nel 2019 circa 5mila pensioni, il 3% del totale (rispetto alle 156.700 liquidate pari al 58% di quelle previste nella Relazione Tecnica: il primo segnale del fallimento). mentre in generale i lavoratori che si sono avvalsi della deroga avevano un’anzianità di servizio maggiore di 38 anni. Il che significa che le generazioni dei baby boomers interessate erano in grado di far valere un’anzianità minima di 38 anni prima di aver compiuto i 62 anni di età. E quindi per conseguire pure il requisito anagrafico questi soggetti hanno dovuto rimanere in attività ancora per qualche anno. Ecco perché è largamente superiore il numero di chi si è avvalso del pensionamento anticipato ordinario per conseguire il quale è richiesta una più elevata anzianità contributiva, a prescindere tuttavia dall’età anagrafica.

«La lettura dei dati sulle pensioni accolte nel 2019, disaggregati in base all’età, mostra – scrive la CdC – un generale addensamento sui 63 anni (circa il 27 per cento). I pensionati con Quota 100 con almeno 66 anni di età (e quindi prossimi al pensionamento di vecchiaia di 67 anni di età) sono mediamente il 14 per cento del complesso. Escludendo questa fascia, comunque, non si ravvisano particolari picchi o anomalie nella distribuzione dei pensionati. Questo sembra confermare – ribadisce la CdC – che la discriminante più importante, nell’adesione a Quota 100, sia stata l’anzianità contributiva piuttosto che l’età.

In sostanza, l’uscita anticipata ha finito per attrarre principalmente coloro che – per anzianità contributiva – avevano la minima distanza dalla soglia prevista per l’uscita anticipata (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 e 10 mesi per le donne): circa la metà dei lavoratori uomini è andata in pensione con almeno 41 anni di anzianità; le donne con almeno 40 anni di anzianità risultano il 53 per cento del totale, oltre il 30 per cento ha almeno 41 anni di anzianità. Questi trend dimostrano che gli effetti di quota 100 saranno destinati – alla scadenza della deroga alla fine del 2021 – a confluire verso l’utilizzo del pensionamento anticipato ordinario, bloccato fino a tutto il 2026, a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne. Sempre che non passi l’idea delirante (che vede insieme Lega e sindacati) di ridurre addirittura il requisito contributivo a 41 anni qualunque sia l’età.

Osservando, poi, le relazioni tra le domande e le condizioni specifiche del mercato del lavoro si arriva – sempre grazie alla CdC – ad individuare un altro fallimento dell’operazione/deroghe giallo-verdi. Non è stata particolarmente significativa la spinta che avrebbe dovuto ricevere l’occupazione giovanile e, dunque, il ricambio generazionale, un processo che sarebbe stato particolarmente importante in un momento di transizione tecnologica come quello in corso.

In termini assoluti, tuttavia, si attendeva una riduzione complessiva del numero di occupati, scontando che la staffetta intergenerazionale avesse luogo non a parità di occupazione. Infatti, in un contesto caratterizzato da bassa crescita prospettica e da un mercato del lavoro che sembra non abbia ancora assorbito completamente gli effetti del rallentamento degli ultimi due anni, i nuovi pensionati con Quota 100 sono stati verosimilmente sostituiti solo parzialmente con nuovi occupati. Nelle stime, con un tasso di sostituzione (senza considerare i lavoratori in mobilità) di circa il 40 per cento, l’impatto sull’occupazione complessiva è di circa -0,2 punti percentuali. La Banca d’Italia ha stimato un impatto ancora più negativo, nell’ordine di -0,4 punti percentuali (Bollettino Economico 1/2020), senza esplicitare le ipotesi sul tasso di sostituzione.

Valutazioni diverse da quelle qui sopra riportate, sono state espresse per esempio dall’Inps, nel corso di un’Audizione parlamentare del mese di gennaio 2020: l’ente ha sostenuto come in termini di tasso di sostituzione Quota 100 abbia avuto un impatto “lievemente positivo” (senza documentare tale risultato); mentre l’Osservatorio dei Consulenti del lavoro ha viceversa stimato nel 42 per cento il tasso di sostituzione nel terzo trimestre del 2019, quindi meno di un lavoratore su due.