1. Ucronia e distopia sono generi letterari: il primo racconta una storia alternativa immaginando che gli eventi accaduti abbiano avuto un corso diverso dal reale; il secondo narra un futuro di cui si prefigurano inquietanti scenari. Per capirci, siamo tra Il complotto contro l’America di Philip Roth e l’orwelliano 1984. Volendo, i due generi si prestano come chiavi narrative delle ultime vicende politico-istituzionali italiane. E non parlo, purtroppo, di fantapolitica.

2. All’inizio dell’anno, esistevano le condizioni per uscire, nel migliore dei modi, dal lungo infarto pandemico. Il ritorno a un’autentica vita di relazione senza distanziamento sociale. Una ripresa economica con percentuali di crescita dimenticate da tempo. Un Pnrr che – se rispettato – assicurerà all’Italia una posta economica enorme al servizio di riforme strutturali. Una consultazione referendaria trainata da due quesiti – in tema di eutanasia e cannabis – di grande impatto sociale, per entrambi i quali si prevedeva una massiccia partecipazione alle urne e una valanga di voti favorevoli. Ne sarebbe risultata una maggioranza popolare aperta ai diritti civili, espressione di un indirizzo politico laico, liberale, progressista, capace di ipotecare la scadenza elettorale della primavera 2023, al termine naturale della XVIII Legislatura.

Le cose sono andate diversamente. La bocciatura dei quesiti trainanti decisa a Corte ha amputato e disinnescato l’appuntamento referendario del 12 giugno, il meno partecipato di sempre. La volontà di potenza dell’autocrate russo ha riportato nei confini europei (e oltre) la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie tra nazioni. In piena crisi (bellica, economica, energetica), la stabilità politica del Paese è stata sacrificata agli interessi di forze politiche in debito di ossigeno. Nelle elezioni anticipate del 25 settembre si accredita già una vittoria a tavolino di quei partiti trinitari («Dio, Patria, Famiglia») che, invece, sarebbero usciti sconfitti dal voto sui due referendum autenticamente popolari (sostenuti da quasi due milioni di firme), di cui si è impedita l’espressione. Potevamo scrivere l’agenda politica di una società aperta. Rischiamo di ritrovarci con una maggioranza parlamentare guidata dai suoi nemici. Ucronia e distopia, appunto.

3. Inquadrato in campo lungo l’accaduto, si coglie la natura strutturale di una crisi che coinvolge insieme gli strumenti della democrazia diretta, della democrazia rappresentativa e della partecipazione politica. Dei tanti segnali, e duraturi, limitiamoci ai più recenti. Quanto al referendum abrogativo, le campagne promosse nell’estate 2021 non hanno sortito alcun esito normativo: inammissibili i quesiti su eutanasia e cannabis, i cinque in tema di giustizia – privati del più rilevante sulla responsabilità civile dei magistrati, bocciato a Corte – non hanno raggiunto il quorum di validità. Accade da venticinque anni: con la sola eccezione dei quesiti del 2011 (in tema di acqua pubblica, nucleare, legittimo impedimento), nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016, 2022, ma già nel 1990) ha sempre prevalso il non voto.

Se poi osserviamo il procedimento referendario nella sua interezza, il dato di fondo non muta. Dal primo referendum sul divorzio nel 1974 ad oggi, ecco le cifre complessive: 666 quesiti annunciati in gazzetta ufficiale. 197 effettivamente depositati in Cassazione. 168 arrivati a giudizio davanti alla Corte costituzionale. 87 ammessi al voto, di cui 15 cessati prima della consultazione popolare. 72 quesiti votati, di cui solo 39 hanno superato il quorum di validità. Di questi, 23 hanno visto prevalere il sì all’abrogazione a fronte di 16 quesiti respinti dagli elettori (cfr. A. Morrone, La Repubblica dei referendum, Il Mulino, 2022, pp.13-14). Oltre una certa soglia, la quantità è qualità delle cose: qualunque referendum, su qualunque materia, da chiunque promosso, è sempre a rischio di fallimento.

4. Quanto al Parlamento, la prossima legislatura ne vedrà ridotta la composizione elettiva (da 630 a 400 deputati, da 315 a 200 senatori) a seguito del taglio lineare dei seggi deciso con legge costituzionale n. 1 del 2020. Ciò nonostante, le Camere non ne hanno messo in sicurezza la funzionalità, come sarebbe stato necessario: nessuna modifica è stata apportata a strategiche regole procedurali (il regolamento della Camera, l’iter legislativo, le competenze del Parlamento in seduta comune) né alla legge elettorale (che pure è specchio di come una democrazia si organizza).
Il mix tra riduzione dei parlamentari, ritaglio delle circoscrizioni, soglie di sbarramento, quota di collegi uninominali (unitamente alle scelte coalizionali del centro-sinistra, che paiono rivelarsi non competitive), distorcerà oltremisura la rappresentatività delle nuove Camere, a tutto favore delle destre.

Senza, peraltro, alcuna garanzia per la governabilità: la legge elettorale, infatti, favorisce le coalizioni, ma non ne assicura la coesione politica. E così, all’orizzonte, non si sa se intravedere un Parlamento-caserma o, all’opposto, un Parlamento-laboratorio (di cangianti e transeunti maggioranze politiche, frutto del trasformismo parlamentare di pochi eletti, oggi determinanti più di ieri). Sullo sfondo, ma incombente, la rappresentanza politica è sfidata da ogni dove. I populismi revocano dal basso le virtù della democrazia rappresentativa, cui preferiscono il carisma del capopopolo o la mistica della democrazia digitale. Dall’alto, è la retorica della competenza settoriale a spingere verso una sorta di epistemocrazia, espressa nella formula del governo dei tecnici. Dall’interno, è l’autoreferenzialità degli eletti (in realtà sempre più nominati) e la loro vocazione al cambio di casacca in corsa, a minare la tenuta del mandato rappresentativo. Dall’esterno, lo Stato cede quote di sovranità a sedi sovranazionali, dove il ruolo dell’Italia – da protagonista o comprimario – dipende dalla sua affidabilità politica, dalla sua capacità di tenuta democratica ed economica, dall’autorevolezza delle sue leadership istituzionali (Quirinale e Palazzo Chigi).

5. Quanto ai partiti politici, architrave della forma di governo disegnata in Costituzione, vivono da tempo un complessivo declino di militanza, democrazia interna, longevità, rappresentatività, coesione. Ne è un segnale l’implosione dei rispettivi gruppi parlamentari, misurabile nelle dilatate dimensioni che il gruppo misto – alla Camera come al Senato – ha assunto nelle ultime legislature. Ma, più ancora, ne è sintomo la curva negativa dell’affluenza elettorale: se fino al 1979 superava il 90% degli elettori, è poi sempre progressivamente diminuita (oltre l’85% tra il 1983 e il 1994, mai inferiore all’80% fino al 2008, al 75% nel 2013, al 72% nel 2018), giustificando il timore che il primo partito delle imminenti elezioni possa essere quello degli astensionisti.

Del partito di un tempo rimane, invece, il participio passato: è partito, cioè se n’è andato, ma nessuno sa dove. Probabilmente è morto, magari si è solo smarrito, forse ha disertato. Al suo posto, abbiamo visto di tutto e di più. L’esperienza inedita, a lungo egemone, di un partito-azienda nato dall’incrocio tra carisma e patrimonio personale del leader. Una costellazione di sigle individuali espressione di una personalizzazione della politica, spesso velleitaria e autoreferenziale. Un non-partito fondato su un non-statuto, nato da un mix mai sperimentato di controllo verticistico dei flussi comunicativi via internet e meet-up diffusi territorialmente. Le cosmogonie prima renziana e poi salviniana, capaci di scalare gli ultimi partiti-apparato e di fare del governo il perno della propria caduca leadership personale.

In questo processo di progressiva verticalizzazione, oggi viene accreditato il successo elettorale di una formazione neofascista e sovranista, esclusivamente in ragione della fiducia popolare nella sua leader. Si badi: non per i risultati conseguiti, ma per quelli che fa intravedere, perché ciò che conta – nella migliore tradizione decisionista – non è la destinazione ma «il viaggio al seguito del leader» (Mauro Calise). Così, però, resta davvero poco del partito quale insieme di cittadini che si associano liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.).

6. La crisi, dunque, è innegabile. Etimologicamente, krísis è sinonimo di declino, ma anche di trasformazione. Nella sua duplice accezione, la crisi può rivelarsi l’avvio del tramonto o l’occasione del cambiamento. Orientare il corso delle cose verso l’uno o l’altro esito dipende dalla diagnosi dell’accaduto e dall’iniziativa politica messa in campo per un’opera, necessaria, di manutenzione democratica. Qualcuno ha deciso di provarci. La Società della Ragione, con l’Associazione Luca Coscioni e il Centro Studi per la Riforma dello Stato, promuove il 16-18 settembre, a Treppo Carnico, il seminario «Dentro la krìsis: referendum, parlamento, partiti e partecipazione politica».

Attraverso il confronto tra giuristi, politologi, parlamentari, militanti dell’associazionismo, sarà l’occasione per capire come rilanciare gli strumenti della democrazia diretta e dell’associazionismo politico, al fine di rivitalizzare la democrazia rappresentativa. Perché l’antiparlamentarismo è sempre l’anticamera di ogni fascismo e il mito della democrazia diretta è solo la distopica fantasia di tutti i nemici della liberaldemocrazia. Perché, in breve, è meglio Locke di Rousseau. Sarà un incontro in maniche di camicia, arrotolate: servirà molto lavoro, infatti, per definire un’«agenda della democrazia da presentare al nuovo Parlamento» (Franco Corleone, L’Espresso, 7 agosto). Il programma del seminario si legge in rete (www.fuoriluogo.it); i lavori si potranno seguire anche a distanza (www.societadellaragione.it/treppo22). Da segnare in agenda.