Caffè era un economista Lib-lab? Direi di no, direi che era spostato molto più a sinistra. Poteva essere forse definito socialista, ma era un socialista radicale, difensore accesissimo dello Stato sociale e dell’intervento dello Stato in Economia. Probabilmente nell’articolo scritto da Draghi l’altro giorno per il Financial Times c’è parecchio del professor Caffè. Sapete come sono le cose, per quasi tutti: in vecchiaia tornano le vecchie idee, i vecchi maestri.

Draghi studiò con Caffè, poi andò in America, studiò con Modigliani (che era più lib, sicuramente, di Caffè) diventò professore ordinario di economia a poco più di trent’anni, ebbe incarichi prestigiosissimi in molto istituti pubblici e privati, e agli inizi degli anni Ottanta iniziò quella che può essere considerata la sua carriera politica: fu chiamato a fare il direttore generale del Tesoro dall’allora ministro Giovanni Goria, quando il premier era Craxi (anche lui lib-lab, ovviamente).

È curioso ripensarci oggi. Allora Goria era considerato il meno carismatico dei leader democristiani dell’epoca. Era giovane, lo prendevano in giro perché aveva poca storia, Forattini (re dei disegnatori satirici) lo disegnava con la barba (Goria aveva la barba sessantottina, credo che sia stato il primo ministro e poi premier con la barba nera e jeans) ma senza volto. Senza naso, bocca, occhi. Bianco. Per dire: chi è questo? Con il metro di oggi, se uno paragona Goria a quelli di adesso – chessò: Di Maio o Conte, o Bonafede…- sembra di mettere un gigante a paragone con dei nanetti scialbi. Allora però il problema era che non ti paragonavano a Conte ma a Moro o a Fanfani.

Comunque il volo politico di Draghi inizia lì. Mentre tanti suoi compagni di studi assumevano posizioni importanti in vari settori della macchina politica e dello Stato, per esempio Ezio Tarantelli, che era anche lui un ragazzo di Caffè e che due anni dopo, nel 1985, fu abbattuto neanche quarantenne da una raffica folle delle Brigate Rosse. Anche lui, Tarantelli, era un lib-lab. Draghi è rimasto al Tesoro per tantissimi anni. Attraversando partiti e maggioranze, dalla Dc e dal Psi, al Pd erede del Pci, a Berlusconi a Prodi. Era inamovibile. Poi approdò a Bankitalia, nel 2005, e infine fu chiamato in Europa, nel 2011, a dirigere l’economia europea.

Oggi Draghi è una delle pochissime personalità europee ancora in piedi. Merkel è a fine corsa, Macron non sembra un gigante, gli inglesi e gli italiani boccheggiano, Sanchez al massimo vale Goria. Lui è il numero 1. In Italia piace davvero? Draghi è l’uomo che può ricomporre la borghesia italiana, spaccata in due, negli anni Novanta, quando Berlusconi scippò lo scettro ad Agnelli e aprì una frattura che non si è mai ricomposta. E che ha prodotto un grande indebolirsi della borghesia italiana, delle sue capacità economiche e di egemonia.

Draghi è in grado di ricomporla e di riportarla alla guida, anche morale, del Paese? Probabilmente sì. E per questo non è affatto detto che sia gradito. Proprio il vecchio ceppo agnellino non vede di buonocchio questo giovane settantenne e il suo lib-labismo. E anche a Cairo non piace molto. Già, lui me l’aveva detto: “Guarda che io non sono come Luca”. Diceva Luca per dire Montezemolo.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.