La decisione della multinazionale Whirlpool di chiudere lo stabilimento napoletano ha riproposto in modo drammatico il tema delle politiche nazionali per regolamentare gli investimenti stranieri e proteggere l’occupazione. Una prima risposta è contenuta nella bozza di decreto legge recante “misure urgenti in materia di tutela dell’insediamento dell’attività produttiva e di salvaguardia occupazionale” proposta dal ministro Andrea Orlando e in questi giorni al vaglio del premier Mario Draghi.
Il provvedimento è destinato alle imprese «il cui impatto occupazionale sul territorio viene considerato rilevante». Il decreto stabilisce rigidi vincoli procedurali per le imprese che chiudono le attività, imponendo loro un preavviso di almeno sei mesi, e la precisa indicazione delle ragioni della dismissione. Entro tre mesi dalla comunicazione, l’impresa deve presentare un piano per mitigare le ricadute occupazionali individuando un potenziale acquirente. Il decreto poi prevede una sanzione pecuniaria pari al 2% del fatturato dell’ultimo esercizio per quelle imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di contributi pubblici. Le somme così ricavate saranno destinate alla reindustrializzazione del territorio e a politiche per la formazione del personale. Infine si prevede la redazione di una “black list” di imprese che delocalizzano senza oggettive ragioni e che per tre anni non potranno accedere a finanziamenti pubblici nazionali.
Il decreto avrà sicuramente un iter politico difficile, visto le diverse sensibilità presenti nel governo (il ministro Giancarlo Giorgetti vorrebbe puntare soprattutto su meccanismi incentivanti). La capacità di attirare investitori esteri è diventata nel contesto della globalizzazione una sorta di prova della competitività di un Paese. Il successo del modello cinese ha dimostrato che aree con bassa dotazione di capitale possono imboccare un sentiero di sviluppo virtuoso se riescono ad attirare capitali esteri. Dalla fine degli anni Novanta il Governo ha predisposto specifiche agenzie (l’ultima è Invitalia) che dovrebbero favorire l’insediamento di multinazionali, con l’obiettivo di promuovere l’innovazione del sistema industriale. Tuttavia, come si evince da dati di Confindustria, il nostro Paese attira meno investimenti diretti esteri rispetto alle altre maggiori economie.

Le imprese multinazionali presenti in Italia, nel 2019, rappresentano solo lo 0,3% del totale delle aziende residenti, ma impiegano il 7,9% degli occupati del settore privato (pari a 1 milione e 313 mila addetti), contribuiscono al 15,1% del valore aggiunto (113 miliardi di euro) e finanziano ben il 25,5% della spesa privata in ricerca e sviluppo (3,6 miliardi di euro). Esse, inoltre, rappresentano una quota rilevante delle grandi imprese (il 33,8% del totale delle imprese manifatturiere) e attivano poco più di un quarto delle esportazioni nazionali (26,4%) e quasi la metà delle importazioni nazionali (45,6%). La maggior parte di queste imprese si concentra nel Nord (68,5% dei dipendenti e il 76% del valore aggiunto complessivo). Nel Mezzogiorno si concentra, invece, il 9,9% degli addetti e l’8,1% del valore aggiunto. La Campania è al primo posto, con il 2,7% degli addetti e il 2,3 del valore aggiunto, seguita a breve distanza dalla Puglia.

Un altro dato rilevante è la presenza delle multinazionali in settori strategici come le telecomunicazioni. Questi numeri dimostrano il peso non irrilevante che le imprese estere occupano nell’economia nazionale. Negli ultimi anni i flussi degli investimenti esteri si sono diretti prevalentemente verso i Paesi in via di sviluppo e si sono più che dimezzati verso l’Europa (-55%). Il decreto legge si inserisce, quindi, in questo quadro di difficile competizione in cui ogni piccolo mutamento di condizioni legali può determinare fughe di capitali e delocalizzazioni.

Il confronto con le multinazionali non può essere al ribasso sul lato dei costi, per fare concorrenza ai Paesi in via di sviluppo, e neppure può essere meramente sanzionatorio, scelta che si tradurrebbe in una rapida fuga di capitali che molto difficilmente sarebbe fermata. Del resto le scelte delle multinazionali italiane all’estero non sono diverse da quelle straniere che operano nel nostro territorio nazionale. Il confronto con le multinazionali deve avvenire sul piano delle condizioni che assicurano al nostro Paese un vantaggio comparato come economia avanzata e, in particolare, la presenza diffusa di manodopera qualificata e di eccellenze in ricerca, sviluppo e innovazione, nonché l’esistenza di filiere produttive di piccole e medie imprese fortemente specializzate e di distretti industriali in grado di favorire economie esterne di localizzazione.

Più che adottare inutili e controproducenti politiche sanzionatorie occorrerebbe rafforzare questi elementi di vantaggio competitivo per attirare investimenti esteri di qualità. Le politiche più idonee devono puntare a rafforzare il sistema di formazione e a incrementare i fondi per la ricerca e lo sviluppo, mantenendo il controllo dei settori strategici necessari all’indipendenza economica nazionale, in primo luogo le telecomunicazioni. Il Recovery Plan offre un’opportunità proprio in questa direzione.