Per quanto sia pieno zeppo di cinema internazionale, con 56 paesi rappresentati, la Mostra del Cinema di Venezia, nel suo nono giorno, conferma di non dimenticare mai il cinema di casa nostra. In attesa di Chiara di Susanna Nicchiarelli, ultimo film italiano in concorso alla 79esima edizione, ci pensano un maestro come Paolo Virzì ed il suo nuovo lavoro, Siccità, a rappresentare il Belpaese, anche senza prendere parte alla competizione ufficiale. In un futuro non troppo lontano, in una Roma in cui non piove da tre anni, Virzì ambienta un racconto corale, fatto di personaggi in cerca di redenzione, le cui vite si intrecciano tra di loro, «un’umanità spaventata, affannata, afflitta dall’aridità delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rabbia – dice il regista – che si sta sgretolando e muore di sete e di sonno».

Si apre infondendo una strana e fastidiosa sensazione di familiarità sullo spettatore, Siccità, perché quel doversi adattare a vivere sotto un pericolo costante, imminente, che minaccia la sopravvivenza, è qualcosa che abbiamo vissuto tutti e ancora stiamo patendo. Pensato durante il lockdown, il film è nuovamente frutto del sodalizio artistico, in sceneggiatura, di Virzì con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo. «Ci si domandava se il cinema ci sarebbe stato ancora, se ci saremmo rincontrati, se ci sarebbero state delle storie e gli attori si sarebbero ancora baciati sullo schermo – ricorda Virzì della pandemia. “Ci siamo chiesti: cosa sarà di noi? Che futuro ci aspetta? Come facciamo a raccontare questo sentimento senza raccontarlo nettamente? Abbiamo fatto un sogno, abbiamo avuto una visione, all’inizio giocando con un’idea di film di fantascienza, Roma dopodomani, un futuro vicinissimo, alle prese con un allarme climatico-sanitario e non poteva che essere una storia collettiva di tanti destini. Ne è uscita una galleria di personaggi che abbiamo provato a intrecciare con un disegno che contenesse anche un po’ il segreto della salvezza». Prosegue poi Paolo Virzì in un flusso di coscienza: «È un film, mi rendo conto, catastrofico ma allo stesso tempo non si può raccontare senza speranza e quindi quella canzone di Mina, quella pianta che viene bagnata sono la nostra preghiera di poterci tutti insieme salvare».

A rappresentare un’umanità dominata dall’arsura, un cast variegato composto di vecchie conoscenze del regista come Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Monica Bellucci e nuove come Emanuela Fanelli e Max Tortora. Ruba la scena Monica Bellucci, così come sottolineato ironicamente e buffamente da Orlando, costretto ad arrivare con lei al photocall e dunque ignorato dai fotografi: «Ho sempre voluto lavorare con Virzì, avevamo lavorato insieme in Io e Napoleone – ricorda l’attrice -. Se Paolo chiama, tu corri. Questo ruolo per me è un po’ cattivo. Da una parte questi personaggi cercano redenzione e lei invece no. Per questo ho accettato la parte». Tutti imperfetti dunque i componenti del mosaico scritto dal regista di La Prima Cosa Bella, pezzi di un puzzle che invece di essere tragedia, è satira, a volte parodia, comicità. Conferma Virzì e rilancia: «La commedia umana porta con sé il sentimento della compassione per tutti e in questo film anche i più colpevoli, coloro che hanno compiuto le azioni più scellerate, sono perdonati perché senti che sono creature in affanno di questo universo, che attraversano la sete e sono alla disperata ricerca di consolazione, sollievo e amore». C’è un taxista che un tempo era l’autista di un Ministro, una libraia che ora fa la cassiera, un attore finito a fare video sui social, un medico che sembra non provare più empatia, affetto.

Nuovi tipi sociali della nuova commedia all’italiana vengono introdotti attraverso Siccità: «C’è una galleria di personaggi che ci racconta una nuova Italia e un elemento che salta agli occhi di tutti è come le distanze sociali si accentuano e come ci si diriga verso una direzione che non è più quella della lotta felice, della riscossa gioiosa, ma una rabbia sorda e che sembra portare all’autodistruzione». Da questa riflessione parte Silvio Orlando: «Per me si poteva chiamare anche Sete, quella delle persone di tornare a una vita normale di relazione e che viene un po’ negata. Oggi tutto sembra mediato da qualcosa che rende inutile ciò che facciamo. Diventiamo tutti una moltitudine di individui, ognuno a confronto con le avversità e quando si rimane da soli si possono avere solo delle pratiche autolesionistiche». Paolo Virzì ha concepito Siccità per il buio della sala cinematografica e lo dichiara apertamente: «Abbiamo pensato di fare questo film per le grandi sale piene di gente. Era una sfida folle e non sappiamo che risultato avrà. Sento un grande desiderio di voltare pagina, ricominciare e ci auguriamo di rivedere le persone al cinema».