Si può dire a chiare lettere che in certi casi vale il segreto di Stato? Si può pretendere che una zona grigia per definizione, quella dei servizi, sia gestita con rigore e trasparenza, trattandosi di nomine pubbliche che rispondono ad interessi pubblici? Si potrebbe e si dovrebbe fare. Ma non si è fatto.

Da qui il pantano di questi giorni, che dal caso Almasri arriva fino alle sconcertanti rivelazioni su Paragon, la società israeliana che avrebbe spiato su whatsapp chissà chi, chissà perché e chissà per ordine di chi. Al punto che a far esplodere il caso è Meta di Zuckerberg. Molti accusano le big tech di sostituirsi ai processi democratici. Ma intanto questi processi dovrebbero poter funzionare. L’opposizione, in questa fase storica, se la cava con poco. Dispone infatti di una sorta di assistente virtuale che ad ogni crisi produce in automatico la frase “il governo riferisca in Parlamento”.

Il governo, invece, oggi ha di fronte una sfida su cui si gioca per intero la sua credibilità. Più dei ritardi dei treni o del prezzo del diesel, si tratta di risolvere due dei tormenti che da tempo sono diventati tormentoni. Uno è il conflitto con la magistratura, che ora si estende persino al campo internazionale. L’altro il reset del sistema dei servizi, che più che segreto appare torbido e privo di alcun controllo.

Al ministro Salvini che prima lancia il sasso e poi nasconde la mano, e ai suoi colleghi dell’esecutivo, dev’essere chiara una cosa: di oscure faide di palazzo e di regolamenti di conti possono parlare i cittadini, al limite i giornalisti che su questi vogliono indagare. Non possono essere la foglia di fico di un governo immobile.