L'intervista
Stato-Mafia, l’avvocato Manes: “Il doppio binario oramai è regola”
Vittorio Manes è uno dei più noti penalisti italiani. Professore ordinario di diritto penale nell’Università di Bologna e avvocato in processi di caratura nazionale. Come avvocato, insieme ai colleghi Milio e Romito, ha difeso il generale Mori e il colonnello De Donno davanti alla Corte di Cassazione, nel processo concernente la cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (oggetto del convegno che si terrà venerdì e sabato 12-13 aprile ad Avellino su iniziativa della Camera Penale Irpina): un tema ritornato in ballo pochi giorni fa quando, alla notizia della collaborazione di Francesco Schiavone detto “Sandokan”, boss dei Casalesi, qualcuno ha alzato di nuovo il tiro. Di fatto, c’è chi sembra affascinato dall’idea che Sandokan possa raccontare la verità sulle stragi mafiose del 1992-1993.
Professore, qual è la maggiore eredità della sentenza della definitiva del processo sulla trattativa “Stato-Mafia”?
«Si tratta di una vicenda molto travagliata della storia repubblicana, dove si è discusso con notevole enfasi mediatica di un procedimento che finalmente ha visto la sua conclusione nelle aule giudiziarie, cioè nell’unica sede deputata ad ospitarlo. E che ha trovato una risposta molto perentoria della Corte di Cassazione che ha assolto gli imputati principali – e tra questi il generale Mori e il colonnello De Donno – per non aver commesso il fatto. Una decisione decisamente tranciante nel merito, che ha però il suo maggiore pregio nell’impianto argomentativo, e nel metodo, perché affronta il significato della regola dell’oltre ragionevole dubbio, la regola BARD (Beyond Any Reasonable Doubt): da un lato, indica una chiara regola di giudizio, che impone l’assoluzione quando residui anche solo una alternativa non implausibile rispetto alla tesi accusatoria, perché per la condanna serve la certezza, mentre per l’assoluzione basta, appunto, il dubbio ragionevole. E dall’altro, oltre ad essere un criterio di giudizio, la regola BARD è un metodo di accertamento che impone al giudice di iscrivere ogni sua valutazione, appunto, non nella luce abbagliante della convinzione cieca ma nel crepuscolo della possibilità, o come dice la Cassazione “nella dialettica del dubbio”. Il che vuol dire anche e soprattutto che il giudice ha il dovere di confrontarsi sempre con la difesa, con le ricostruzioni divergenti e rispetto a quelle dell’accusa, in una dialettica dove l’avvocato rappresenta non un corifeo, ma un interlocutore necessario, perché portatore di un punto di vista alternativo rispetto a quello dell’accusa».
Quindi la regola BARD, il ragionevole dubbio, indica un metodo dialogico e dialettico che consente di approssimarsi alla verità processuale?
«Esattamente. Coltivare il dubbio significa essere aperti rispetto a ricostruzioni alternative, ed anche disponibilità a rivedere i propri convincimenti. È solo questo metodo di confronto costante con le tesi opposte, e con il punto di vista della difesa, che può avere quella funzione “gnoseologica” che avvicina all’accertamento della verità processuale, basata sulle prove e non solo sulle convinzioni di una parte. Questa è la lezione più importante della sentenza, che proprio alla luce di questo percorso ha di fatto ha sgretolato una catena di presunzioni su cui era costruita la tesi della minaccia a corpo politico asseritamente veicolata dagli alti esponenti del ROS all’allora Ministro Conso. La regola Bard rappresenta una pietra d’inciampo, che ci rammenta quanto è forte il rischio dell’errore giudiziario. Ed è un monito che ricorda che è sempre meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente. Un precetto di coscienza, prima che di scienza».
Tutto questo scenario, negli anni, sembra aver creato una legislazione dell’emergenza che, a colpi di decreti legge, produce un elefantiaco pacchetto di norme per contrastare con urgenza un fenomeno complesso come quello della criminalità organizzata.
«Il legislatore italiano da troppi anni è assuefatto al modello del doppio binario: un binario “normale” per i fatti di criminalità “comune” e un binario eccezionale, derogatorio, costruito su misure sanzionatorie draconiane e su strumenti di coercizione processuale straordinariamente contundenti, per i fatti di criminalità organizzata. Questa “eccezionalità” può forse essere comprensibile per affrontare i contesti di emergenze, ma si comprende – e tanto meno si giustifica – molto meno quando l’eccezione tende a stabilizzarsi, e finisce per trasformarsi in regola. Sennonché, questa “normalizzazione” di regimi eccezionali appare ormai pienamente dispiegata: dal doppio regime penitenziario, costruito sull’ articolo 4 bis, alle misure di prevenzione, all’utilizzo di strumenti di intercettazione straordinariamente invasivi come i troyan horse, il regime di eccezione ha visto ormai includere non solo reati della “criminalità nera” ma anche reati di criminalità comune, ordinaria, sino ai crimini dei cd “colletti bianchi”, fagocitando via via tipologie di reati che non giustificherebbero la particolare presunzione di pericolosità che ispira appunti un regime differenziato. Ma anche in altri settori si va ormai affermando un regime speciale: basti pensare alla violenza di genere e al c.d. codice Rosso, un cantiere sempre aperto che viene costantemente aggiornato introducendo una disciplina sempre più severa e una meccanica coercitiva straordinariamente penetrante ad ogni occasione, e sotto ogni bandiera politica».
Quindi il rischio è che il sistema si adatti, progressivamente, all’eccezione?
«Questo rischio mi pare si sia già ampiamente concretizzato. Del resto, una volta inoculata nel sistema, l’eccezione effettivamente tende a trasformarsi in regola, perché il sistema si adatta facilmente alle risposte sanzionatorie che appaiono più incisive e penetranti, alle semplificazioni probatorie, agli strumenti di coercizione investigativa e processuale che appaiono più efficaci. Questa deriva, però, modifica surrettiziamente gli equilibri complessivi dell’ordinamento, il delicato equilibrio tra autorità e libertà, tra sicurezza e garanzie, e con essi gli equilibri dello Stato di diritto. E non vi è dubbio che lo Stato di diritto vada, così, mortificandosi sempre più».
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