Cosa avrebbero fatto i fucilatori del web in servizio permanente effettivo e i politici che sul rancore s’ingrassano se al posto di una ragazza tornata da un anno e mezzo di prigionia sbandierando una legittima conversione all’Islam come Silvia Romano – e si saprà solo col tempo se frutto di Sindrome di Stoccolma o del Corano – si fossero trovati alle prese con quello che a tutt’oggi resta il caso di scuola per ogni interrogativo sul margine tra coercizione e libera scelta nei casi di sequestro: il rapimento di Patricia Campbell Hearst, ereditiera, prigioniera e poi militante del gruppo armato di estrema sinistra Symbionese Liberation Army, (SLA) terrorista latitante, imputata che rivendicava la propria innocenza in nome del cervello lavato dai simbionesi.

Patty fu rapita il 4 febbraio 1974 dalla casa di Berkeley dove viveva con il boyfriend di allora. Aveva 19 anni ed era nipote del multimiliardario William Randolph Hearst, proprietario nel ‘900 della più estesa potenza mediatica del mondo, aspirante candidato su posizioni populiste “di sinistra” alla presidenza della Repubblica per il partito democratico contro Roosevelt, poi, dopo la rivoluzione Russa, paladino della caccia alle streghe rosse. Il modello del Citizen Kane di Orson Welles. I rapitori facevano parte di un gruppo armato fondato l’anno precedente da Donald DeFreeze un nero di 30 anni politicizzatosi nel penitenziario di Soledad, dove scontava una condanna per rapina e da dove era evaso nel ‘73. Il nome voleva evocare la “simbiosi”: tra bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. De Freeze si era ribattezzato “maresciallo Cinque” in omaggio al capo degli schiavi neri ribellatisi sulla nave Amistad ai primi dell’ottocento. Era in realtà l’unico nero del gruppo della SLA.

Tre mesi prima del sequestro Hearst i simbionesi avevano ucciso Marcus Foster, il primo preside nero di una scuola di Oakland, accusato di voler introdurre nella sua scuola strumenti per identificare gli studenti in funzione repressiva. Il rapimento di Patty Hearst doveva servire proprio a ottenere la liberazione dei due militanti arrestati per quell’omicidio. La trattativa non decollò neppure e i simbionesi ripiegarono sulla richiesta di distribuzione gratuita di cibo ai poveri della città. Il costo si aggirava, nella fase più esosa della trattativa, sui 400 mln di dollari. La famiglia accettò di distribuire cibo per 2 milioni, poi, in una seconda tranche, per altri 4 milioni.  Patty non fu liberata. In compenso il 3 aprile arrivò una cassetta registrata in cui la sequestrata annunciava l’adesione al gruppo col nome di battaglia Tania.

“Tania” fu ripresa dalle videocamere di sicurezza di una banca mentre, col mitra spianato, partecipava a una rapina. Qualche settimana dopo aprì il fuoco per proteggere altri due militanti del gruppo, i coniugi William e Emily Harris, che stavano per essere arrestati. I tre fuggirono e si rifugiarono in un motel. Il giorno seguente , guardando la Tv, assistettero alla diretta dell’assedio da parte della polizia alla base simbionese. Quel giorno il gruppo subì un colpo mortale. Furono uccisi sei militanti tra cui DeFreeze e il suo braccio destro Willie Wolfe. Entrambi avevano avuto relazioni e rapporti sessuali con l’ex miliardaria.

I simbionesi restarono attivi ancora un anno prima che Patty fosse arrestata, con gli Harris, il 18 settembre 1975. Si dichiarò prigioniera politica. Rifiutò per 42 volte di rispondere alle domande appellandosi al Quinto emendamento.
Aveva perso decine di chili, era magrissima, il Quoziente di intelligenza, secondo i periti, era precipitato da 130 a 122, gli psichiatri la descrissero come “una zombie”. Al processo si difese impugnando il lavaggio del cervello. Disse di essere rimasta a lungo legata e con una benda sugli occhi, minacciata di morte, costretta a scegliere tra l’adesione alla SLA o l’uccisione, stuprata da vari militanti del gruppo. La difesa mostrò il video della rapina: si vedeva Emily Harris minacciarla con la pistola.

Il caso, in America, tenne banco, divise l’opinione pubblica, occupò le prime pagine. A far pendere il piatto della bilancia dalla parte della condanna fu un ciondolo che l’ereditiera aveva conservato, regalo di Willie Wolfe. A segnalarne l’esistenza fu proprio la compagna detenuta Emily Harris, per dimostrare che non c’era stato stupro: chi conserverebbe gelosamente il regalo di uno stupratore? La giuria convenne. Patty Hearst fu condannata a 35 anni di carcere. A darle una mano, in un certo senso, fu il reverendo Jim Jones, quando convinse oltre 900 seguaci del suo Tempio del Polo, in Guyana, a suicidarsi con un’aranciata al veleno distribuita dallo stesso Jones, il 18 novembre 1978.  L’opinione pubblica, che fino a quel momento era stata ostile alla Hearst, rovesciò la posizione.

John Wayne in persona s’imbufalì con i duri: “Siete pronti ad accettare che una sola persona eserciti il lavaggio del cervello su 900 seguaci spingendoli a uccidersi e non ad accettare che possa succedere a una ragazzina rapita e tenuta prigioniera?”. Il presidente Carter concesse poco dopo la commutazione della pena. Patty Hearst uscì dopo 21 mesi di carcere, sia pure in condizioni di vigilanza ancora molto strette. Poi fu Reagan ad allentare la presa con l’indulto e infine Bill Clinton chiuse la vicenda con la grazia. Su Patricia Hearst sono stati scritti libri e fatti film ma una risposta certa su quanto la si possa considerare responsabile di quei quasi due anni di militanza armata ancora non c’è.