L’11 dicembre scorso la Turchia ha dato un’ulteriore dimostrazione del suo crescente peso in Africa. Di fronte a una grave controversia tra Somalia ed Etiopia – causata dalle pretese etiopiche di ottenere un accesso al mare, tali da mettere in pericolo l’integrità territoriale somala – il presidente Erdoğan ha invitato nella capitale turca i leader dei due paesi, Abiy Ahmed ed Hassan Sheik, ed è riuscito a far approvare una sorta di accordo, denominato Dichiarazione di Ankara.

L’accordo

Secondo il documento, l’Etiopia potrà accedere all’Oceano Indiano “per soli fini commerciali” attraverso le coste somale, mentre Mogadiscio vede riconosciute la sua sovranità e l’integrità territoriale dal governo di Addis Abeba. La Dichiarazione rinvia a future negoziazioni tecniche i dettagli operativi dell’intesa, da avviare entro la fine di febbraio 2025 (e questo è l’elemento debole del testo). Le tensioni tra Etiopia e Somalia erano scoppiate quando, all’inizio del 2024, il primo ministro etiopico Abiy aveva concluso un Memorandum con il territorio del Somaliland per ottenere in affitto 20 chilometri di costa sull’Oceano. Il tutto in cambio del riconoscimento internazionale etiopico dell’auto-proclamata piccola Repubblica, in realtà non riconosciuta da alcun altro paese del mondo. Ciò aveva provocato vibrate proteste della Somalia – anche nell’ambito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – per il rischio di occupazione etiopica di territori del Somaliland, che Mogadiscio considera tradizionalmente di sua appartenenza. Il dissidio tra i due paesi ha raggiunto pericolosi livelli di guardia nella inquieta regione del Corno d’Africa, al punto da far ipotizzare addirittura un nuovo conflitto africano potenzialmente in grado di coinvolgere Egitto ed Eritrea al fianco della Somalia, e gli Emirati a sostegno dell’Etiopia.

Grazie ai suoi crescenti rapporti politici ed economici con entrambi i contendenti, la Turchia – dopo lunghi e infruttuosi tentativi di mediazione durati per tutto il 2024 – è infine riuscita a ottenere un compromesso che pare soddisfare sia Mogadiscio sia Addis Abeba. C’è da chiedersi come mai anche sui quadranti africani (come ad esempio in Libia) Ankara riesca ad avere così tanta influenza, fino a riuscire in una mediazione talmente complessa da non essere nemmeno stata tentata da altri attori internazionali. Si parla pure della possibilità che la Turchia lanci prossimamente un tentativo di mediazione per fermare i cruenti scontri armati in Sudan, da due anni fuori controllo e senza prospettive di pace.

La guerra in Tigray

Prima di tutto, il presidente Erdoğan è un leader che “ci mette la faccia”, senza troppi timori di eventuali insuccessi negoziali. Con i paesi africani conta ancora il peso specifico del coinvolgimento in prima persona di un capo di Stato carismatico per condurre in porto le iniziative più importanti, e pochi altri leader mondiali lo fanno. Inoltre la Turchia – essendo un paese dirigista, dove le decisioni politiche si traducono in progetti concreti in breve tempo – ha investito pesantemente in Africa, in infrastrutture, in reti commerciali (interscambio di oltre 35 miliardi di euro), in sedi diplomatiche (44 nel Continente, con 22 uffici di cooperazione), in collegamenti aerei della Turkish Airlines (oltre 60 tra Ankara e le capitali africane), in centri culturali, senza trascurare il fiorente settore degli armamenti (il governo etiopico ha vinto la sua guerra in Tigray grazie all’utilizzo dei droni turchi Bayraktar TB2). È in questo modo che soft power e hard power si intrecciano abilmente nel modus operandi turco sul Continente, il cui primo ispiratore è Erdoğan.

Gli equilibri nel mar rosso

Infine la Turchia guarda con la massima attenzione agli equilibri nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano, alle ambizioni degli Emirati di controllare entrambe le sponde del Golfo di Aden e ai propri ingenti interessi petroliferi proprio di fronte alle coste somale. In una fase storica in cui sul Continente africano si svolge una corsa al posizionamento economico e geostrategico da parte di vari attori internazionali, Ankara – pur senza disporre di risorse economiche strabilianti – riesce a essere un interlocutore credibile e affidabile per la sua capacità di concretizzare rapidamente le sue promesse, magari con atteggiamenti non sempre etici, ma con operazioni utili ai capi di Stato e di governo africani e ben visibili alle loro popolazioni. Purtroppo si tratta proprio di quegli elementi che fanno difetto all’azione della Ue, anche se l’Unione e i 27 paesi membri restano (se considerati insieme) di gran lunga il maggiore investitore e il più importante partner commerciale dell’Africa. Oltre agli aspetti economici e finanziari, sono sempre più rilevanti, negli attuali contesti di fragilità e “balcanizzazione” del Continente africano, anche le iniziative con una calibrata e lungimirante visione politica e strategica. E quelle, apparentemente, in Europa mancano proprio.